Primo scontro tra gli eletti del professor Charles Xavier (Patrick Stewart) e i seguaci assoldati da Magneto (Ian McKellen). Nel mentre una legge parlamentare mette a serio rischio il futuro dei mutanti, su di loro pesa il pericolo di una possibile schedatura.
L’ingresso di Bryan Singer nei saloni di lusso di Hollywood è di quelli che lasciano il segno. Il regista, già sulla bocca di molti grazie al successo ottenuto da I soliti sospetti, fa saltare il banco con un film che mette tutti d’accordo: fan del fumetto, semplici simpatizzanti, appassionati di cinema d’azione “pensante” e soprattutto produttori, i quali si ritrovano tra le mani la pietra miliare del cinema popolare americano che verrà. Un precedente pesante, decisivo ai fini del rilancio dell’intera industria cinematografica americana, ad un passo dal toccare con mano l’infinito potenziale dei cinecomics, ovvero quel filone capace di affermarsi definitivamente con Spider-Man. X-Men non è un semplice blockbuster usa e getta, bensì una calibrata parabola sociale e morale che, sotto la superficie intelligentemente commerciale, nasconde metafore universali e invidiabile cura per molte delle psicologie che lo affollano. Un’ambizione strutturale quest’ultima, appesantita solo il minimo indispensabile da un comprensibile fare didascalico, retaggio di potenzialità appartenenti a un diamante narrativo appena liberatosi del suo stato grezzo. L’incipit ambientato nel campo di concentramento, oltre a far riaffiorare l’ossessione di Singer per la seconda guerra mondiale (L’Allievo e Operazione Valchiria), altro non rappresenta se non il trampolino storico in grado di bilanciare la trama fantastica (la volontà umana di schedare i mutanti) con la realtà storica individuata come fonte di lontana ispirazione (lo sterminio degli ebrei). I fedelissimi di Xavier, così come gli adepti di Magneto, rappresentano l’ultima razza sgradita sottoposta a persecuzione, involontarie vittime di una diversità che non hanno certo richiesto, in quanto figlia della loro particolare natura cromosomica. Potenziali fenomeni ai margini della società, rifiutati dalle proprie famiglie e costretti a vivere, nel migliore dei casi, d’espedienti giornalieri.
Il potere si palesa fin da subito come condanna: situazione ben conosciuta da Marie “Rogue” (Anna Paquin) e Logan “Wolverine” (Hugh Jackman), due delle maschere che più spiccano per dolore, sofferenza e iniziale rassegnazione; condizioni di resa ad una natura indesiderata, maleaccetta e sopportata a fatica. E se il celebre uomo di adamantio si accattiva ben presto le simpatie del pubblico per il suo fare rude, aggressivo e brutale, collocandosi al tempo stesso come outsider all’interno del gruppo di outcast sociali alla corte di Xavier, il personaggio che melodrammaticamente più colpisce al cuore è quello di Rogue, adolescente obbligata a tenere a distanza mutanti e non a causa della sua micidiale particolarità: qualsiasi contatto, un bacio, una stretta di mano conduce alle prossimità della morte il destinatario, chiunque esso sia. Un affresco con i controfiocchi, saturo di rimandi e sotterranee chiavi di lettura, accompagnato da una regia impeccabile, forte di effetti speciali per nulla datati e impreziosito da uno script che non lesina in autoironia (vedi i continui battibecchi tra Ciclope e Wolverine). X-Men, insomma, è la base sulla quale poggerà l’intera moda del cinecomics, il film che detta le regole, quello in grado di alzare l’asticella intellettuale delle produzioni d’intrattenimento. Il primo a giovarne sarà Sam Raimi con Spider-Man.