Due coppie omosessuali italiane felicemente sposate; l’una alla ricerca di un’adozione surrogata che sembra non arrivare mai, l’altra che di figli ne ha già tre. Due potenziali papà e due mamme alle prese con la crescita di bambini propri e alla ricerca di sogni quasi irraggiungibili, in una società incapace di osservarsi oltre la soglia del pregiudizio compulsivo e, ciò che è peggio, in uno stato lungi perfino dal riconoscere la loro unione. Nel breve documentario artigianale realizzato da Nadia Dalle Vedove e Lucia Stano, s’intravedono due spaccati complementari quasi inimmaginabili ai più; comuni a migliaia di altre coppie, ma simboleggianti una realtà troppo scomoda alla convenzione della normalità. Al di là degli inevitabili dibattiti e discussioni che il tema potrebbe sollevare, la scelta delle due autrici è stata quella di mantenere un profilo basso, senza sollevare accese polemiche con la giurisdizione e i vertici italiani, se non in modo velato e intelligente. Sebbene il documentario costituisca di certo un’opera di denuncia a sostegno delle famiglie omogenitoriali, si è scelto di seguire la strada di una normale diversità, per isolare lo spettatore dai pregiudizi esterni e costruire una bolla di cristallo all’interno della quale le vite dei protagonisti scorressero scevre da conflitti sociali e facili vittimismi. Durante i cinquanta minuti circa di riprese c’è spazio per tutte le figure in qualche misura coinvolte; esclusi volutamente pensatori politicizzati e chi su queste questioni sarebbe chiamato a legiferare. Amici, genitori, dottori, madri surrogate, e naturalmente il punto di vista dei bambini fanno da vistoso contorno alle emozioni e le speranze delle due famiglie di fatto. Il tutto è condensato in tempi piuttosto brevi, garantendo una sensazione di fruibilità come quella di fronte a un diario personale spontaneo. Anche la regia dinamica e i cambi frequenti di prospettiva non lasciano spazio a commiserazioni di sorta, tantomeno alla retorica più scontata, ripudiando così qualsiasi forma di captatio benevolentiae nei confronti del pubblico. Sorprendono e colpiscono i contenuti, che pur non sciorinando i suddetti pietismi, regalano bei momenti di vita vissuta mantenendo una fulgida naturalezza. A convincere perlopiù è però paradossalmente la forma. Oltre a non annoiare, si cerca solo di mostrare dell’altro; tutto fuorché in contrapposizione con situazioni avvertite come più ricorrenti. Spaccate possono essere senz’altro le opinioni su un argomento così delicato, ma vanno rispettate e messe in luce anche le voci di chi sfrutta il cinema come strumento sociale di visibilità, e che forse paga un prezzo davvero salato in termini di cassa di risonanza mediatica proprio per un approccio fin troppo ovattato e silenzioso. L’esempio de Il Lupo in Calzoncini Corti sbandiera senza dubbio questa ventata di tolleranza in modo lungimirante, dipingendo in maniera positiva anche il percorso di vita delle due coppie.