Anno di grazia 2000. Bryan Singer, allora già rinomato autore de I soliti sospetti dà ufficialmente il via all’ultimo grande filone hollywoodiano: quello dei cinecomics. Appena qualche lustro dopo il non propriamente riuscito Spawn e poco prima che Sam Raimi pigiasse il bottone start della saga SpiderMan, ecco Singer cimentarsi con il pioneristico dittico X-Men, primitivo e futuristico battistrada di una tendenza tutt’ora in essere, riconducibile a reiterate trasposizioni e adattamenti per il grande schermo di nomi più o meno noti del racconto per nuvole; appartenenti all’universo Marvel e non solo.
Quella effettuata da Bryan Singer non è affatto una scelta casuale: le personalità che affollano la “Scuola per Giovani Dotati” fondata dal professor Charles Xavier (il Professor X), altro non sono che meravigliosi scherzi della natura o, nel peggiore dei casi, della scienza militare (Wolverine); freaks temuti e ripudiati, outcast sociali, monstra declinabili attraverso la primigenia accezione del termine latino (prodigio), comunque avvertiti dalla comunità riconosciuta come “normale” esclusivamente secondo il senso comune e volgarmente basso dell’espressione arcaica (diversi, quindi pericolosi). Esseri obbligati all’anonimato e al nascondiglio, outsider cromosomici spesso ripudiati dalle loro stesse famiglie, contemporaneamente costretti a vigilare sulle esistenze di chi li schernisce ma che involontariamente e nel silenzio dell’anonimato trae i salvifici benefici delle loro vigilanti capacità sovraumane. Singer, insomma, batte la stessa strada percorsa dall’M. Night Shyamalan di Unbreakable: il (super) potere non è (quasi) mai vantaggio, bensì condanna, fonte di sofferenza ed emarginazione. Per centrare in pieno il bersaglio il regista salta a piè pari le origini della serie cartacea (la stessa che voleva la formazione originaria composta dai soli Ciclope, Marvel Girl, la Bestia, Angelo e l’Uomo Ghiaccio: “X-Team” che, guidato dal professor Xavier, si divideva tra controllo e potenziamento dei propri poteri e lotta contro la nemesi Magneto), pescando a piene mani dalla “nouvelle vague” del fumetto, quella firmata dallo sceneggiatore francese Chris Claremont: al quale si devono, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, le virate tragiche dello script, la nascita di cicli imprescindibili per la comprensione d’insieme del fenomeno (La Saga della Fenice Nera su tutti) e la comparsa di personaggi chiave come Wolverine, di lì a poco destinato a sopravvivere di vita indipendente ben oltre le maglie di squadra appartenenti alle regole di gruppo della soap opera di fantascienza ideata da Stan Lee/Jack Kirby nel 1963.
Un calderone d’intrattenimento all’interno del quale non mancano sottotrame squisitamente sociali e universalmente riconosciute come eterne, quali l’emarginazione, l’importanza del gruppo o la metaforica critica al razzismo e all’intolleranza nei confronti del diverso. Elementi che Singer non solo comprenderà appieno, ma addirittura farà suoi, utilizzandoli come “palestra” per quel melodramma sui sentimenti infranti meglio conosciuto come Superman Returns, non prima di aver lasciato in eredità il presunto fattore della generazione X, dal seme del quale germoglieranno, nell’ordine, X-Men: The last stand e ben due spin-off: quello dedicato ai natali di Wolverine e il successivo, incentrato sull’origine del rapporto d’amicizia poi interrotta tra Xavier e Magneto.