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L'invasione degli ultracorpi: un ricordo di Philip Dick tra cinema e letteratura

30/12/2019 21:01

Davide Tecce

Approfondimento Film,

Una delle più celebri opere della fantascienza anni '50 si ispira a un racconto di Philip K. Dick e a un romanzo di Jack Finney. Ma ci sono coincidenze e differ

Era il 1956 quando uscì nelle sale americane L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel, piccolo grande capolavoro destinato a lasciare un’impronta indelebile nella storia della fantascienza. All’epoca Philip K. Dick non aveva ancora compiuto trent’anni, viveva a Berkeley insieme alla seconda moglie Kleo Apostolides e, nonostante l’amore che lo legava alla science fiction, non si recò al cinema a vedere il film di Siegel poiché si sentiva assai a disagio in quell’ambiente buio e affollato. Accadde così che venne a sapere della pellicola grazie ad alcuni amici, ma quando questi gli raccontarono la trama, la reazione dello scrittore fu quella di rimanere letteralmente sconvolto: non tanto, o meglio non soltanto, a causa dell’opera in sé (indubbiamente un gioiello di suspense e di tensione), quanto piuttosto per l’incredibile rassomiglianza con un racconto che Philip K. Dick in persona aveva scritto qualche mese prima, nel 1954, con il titolo La cosa-padre. All’inizio Dick pensò a un caso di plagio, ma venne poi a sapere che il film dichiarava apertamente di aver preso ispirazione da un romanzo di Jack Finney, Gli invasati, pure lui curiosamente uscito nel 1954. Si trattava, com’era evidente, di una straordinaria coincidenza, sintomo di un’idea che circolava nell’aria in quel periodo, e che entrambi gli scrittori - per definizione sensibili recettori di quanto nella società si annida dietro il luogo comune - avevano captato e impresso sulla carta. Fu così che nell’America del maccartismo, della repressione anticomunista, il clima da caccia alle streghe e la cultura del sospetto partorirono quei mostri abilmente descritti da Jack Finney, Philip K. Dick e Don Siegel nelle rispettive creazioni artistiche: mostri invisibili e terrificanti poiché celati dietro le mentite spoglie della quotidianità, dietro il volto pulito dell’ordinario, eppure pronti a impossessarsi dei nostri corpi al minimo segnale di distrazione, per sostituirci con delle repliche perfettamente identiche nell’aspetto ma al tempo stesso svuotate di ogni traccia di calore e sentimento. Con un unico obiettivo: proseguire questa tacita, macabra invasione, sino all’estinzione totale della specie umana.


Nonostante la vicinanza lampante dei temi e dei toni, tuttavia, esiste una differenza sostanziale tra gli ultracorpi di Jack Finney e Don Siegel e la cosa-padre di Philip K. Dick. I primi si fanno metafora di un discorso politico che si innalza sino alle soglie della riflessione etica: l’autentico bersaglio polemico è in questo caso la denuncia del lento, subdolo scivolamento individuale verso una concezione arida e passiva della vita, nella quale il sentimento, l’empatia, il nucleo caldo dell’umanità, si vede insidiato e rimpiazzato dalla gelida indifferenza dell’alieno. La seconda si configura piuttosto come un’immagine dalle implicazioni prettamente metafisiche, che proietta l’ombra del sospetto non più solo sull’identità degli uomini, bensì sulla struttura della realtà. Per comprendere meglio come questo avvenga, è importante sottolineare l’evento che ha determinato l’origine dell’idea dickiana della cosa-padre, ovvero un inquietante ricordo d’infanzia. Phil, infatti, aveva appena tre anni quando Edgar, suo papà, reduce della prima guerra mondiale, credette di divertire il figlioletto tirando fuori uno dei cimeli che aveva riportato con sé dall’Europa - una maschera antigas - e facendosi ammirare mentre la indossava. La reazione del piccolo Philip K. Dick, tuttavia, si rivelò decisamente diversa da quanto sperato: non riconoscendo più il volto del padre dietro quell’orrendo simulacro, che faceva pensare a un insetto, urlò in preda allo sconcerto e al terrore più totali. A nulla valsero gli sforzi per calmarlo, tanto che nelle settimane successive all’episodio Phil continuò a nutrire diffidenza nei confronti del genitore, sospettando che dietro la figura del papà, dietro le sue sembianze familiari e persino le attenzioni e i gesti di affetto che gli rivolgeva, si annidasse qualcosa di malvagio, di estraneo, di “alieno”. Il tessuto fragile della realtà, il sottile velo dell’ordinario era stato ormai strappato, e nulla più poteva contribuire a ricucirlo.


Fu proprio in questo modo, dunque, che maturò in Dick sin dall’infanzia quell’immagine destinata a condensarsi più tardi nell’invenzione letteraria della cosa-padre, nella sua sconfinata galassia popolata da macchine androidi, e soprattutto nella creazione più sinistra e diabolica mai partorita dallo scrittore statunitense: Palmer Eldritch, incarnazione del Demiurgo gnostico, quintessenza della spietata Potenza dalla quale ha avuto origine l’intero cosmo. La visione di Palmer Eldritch getterà la propria ombra sull’orizzonte del reale percepito dallo scrittore, sino a oscurarlo del tutto, allo stesso modo con cui, nel racconto del ‘54, la cosa-padre si sostituiva al genitore dopo essersi disfatta del corpo originario. Ma sarà proprio da quell’ombra, dalle profondità di quelle tenebre abissali, che in seguito farà capolino la scintilla revitalizzante di Valis, il “Deus Absconditus” finalmente ritrovato. Ciò segnerà la svolta decisiva nella vita e nella scrittura di Philip K. Dick, ovvero l’uomo che, partito dall’immaginazione degli ultracorpi, approdò infine all’intuizione dell’ultrarealtà.


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