Gianclaudio Cappai ha studiato cinema all’Accademia internazionale dell’immagine de L’Aquila, dove si è diplomato in regia e sceneggiatura. Ha sviluppato diversi progetti documentari e cinematografici, tra cui il cortometraggio Purché lo senta sepolto (2006), vincitore del Torino Film Festival e finalista ai Nastri d’argento 2007.
Nel 2009 presenta con successo alla 66ma Mostra d’arte cinematografica di Venezia il mediometraggio So che c’è un uomo. Senza Lasciare Traccia è la sua opera prima (uscito in DVD per Penny Video): dopo avere visto questo esordio al FI PI LI Horror Festival, abbiamo fatto qualche domanda a Gianclaudio Cappai.
Dove trai ispirazione per scrivere i tuoi film? Preferisci scrivere da solo o con la collaborazione di uno sceneggiatore?
L’ispirazione la lascerei un attimo da parte, a patto che esista. Conosco piuttosto la ricerca, l’immaginazione e il rigore. In un mondo colmo di stimoli, non è semplice captare delle idee per poi provare a farle sentire. Inizio a scrivere interrogandomi su cosa possa mettere in crisi la natura o l’identità umana, e ci rifletto finché delle immagini non iniziano a manifestarsi. Da lì la storia comincia a prendere forma, anche perché il cinema oltre che di reale si nutre soprattutto d’immaginazione. Questo tipo di approccio fino a qualche anno fa avveniva in totale solitudine, troppo intima per me era la scrittura per condividerla. Poi ho capito che una collaborazione a più mani offriva continue sorprese e grazie a uno scambio dialettico rendeva più ricca e pulsante l’idea. Ora preferisco così e sinceramente non tornerei più indietro.
La fotografia è nei tuoi lavori una presenza importante e potente, in grado di creare luoghi senza tempo, immaginifici e difficili da determinare geograficamente. Quali sono stati i tuoi maestri?
La riflessione sulla forma cinematografica è una delle spinte principali per cui faccio cinema. Ed è un tratto che, per gusto e ricerca visiva, mi ha sempre accomunato al Direttore della fotografia Fabio Paolucci dai nostri lontani studi all’Accademia fino ad arrivare a Senza Lasciare Traccia. In generale ammiro tutti quegli autori che, secondo me, hanno fatto avanzare il cinema in termini di sperimentazione e linguaggio. Antonioni, Bresson, Jacques Tati sopra tutti. Oppure Tourneur e la sua trilogia del fantastico, ancora oggi di una modernità sconcertante. Se invece dovessi scegliere il film che più mi ha sconvolto il cuore, il cervello e la sensibilità non avrei il minimo dubbio: Lo Spirito dell’alveare di Victor Erice. Mi lascia estasiato ogni volta (e sono tante) che lo rivedo.
Molti registi affermano di lasciare una parte del film aperta all'improvvisazione. I tuoi film invece sembrano frutto di un grande lavoro, meticoloso, attento: un puzzle perfetto.
Quando preparo un film il mio obiettivo è rendere omogenei e armonici tutta una serie di elementi che partono dissonanti e incerti. Sono incerti gli attori, i luoghi, i suoni. Ecco, cerco solo di metterli in ordine affinché si crei un corpo unico e compatto che corrisponda alla visione precisa che ho in mente. In questa ricerca di armonia c’è poco spazio per l’improvvisazione, a meno che l’obiettivo finale non sia invece ottenere una dissonanza. Improvvisare ti aiuta a “perderti”, a farti influenzare dal caso e dal caos… Con ciò voglio solo dire che non esiste una via ideale, ogni film e ogni regista può e deve trovare la sua forma di realizzazione. Se pensiamo ad esempio a un film come La vita di Adele di Kechiche è ovvio che l’improvvisazione sia stata essenziale per la sua riuscita.
Tu scavi nei volti degli attori, disegni dei primissimi piani come se volessi penetrare nei loro sentimenti più intimi e invisibili. I corpi dei protagonisti spesso portano lividi e cicatrici. Richiedi da loro una recitazione molto fisica. È facile ottenere questo risultato?
Diventa facile nel momento in cui un attore accetta l’idea di eseguire semplicemente qualcosa e smette di convincersi di credere a quel qualcosa. Non impazzisco per gli attori che s’illudono di “entrare nel ruolo” solo perché credono alle emozioni che stanno provando. E trovo discutibile pure l’ostentata ricerca di finto naturalismo tanto in voga adesso. La direzione degli attori è un punto delicatissimo ma va affrontato con meno ansie da prestazione, ecco perché evito di riempirli di parole e mi limito a stimolargli l’immaginazione, il desiderio di fare, di giocare. Senza dimenticare che l’efficacia di una perfomance si plasma anche tramite il montaggio, le ottiche che usi e soprattutto, come evidenziavi, nel modo in cui lavori sul corpo dell’attore. Il corpo non mente mai, è già una mappa chiarissima del personaggio.
Ogni tuo film è un viaggio nelle regioni più oscure e inesplorate dell'animo umano. Il tuo protagonista diventa sempre più consapevole, mano a mano che “qualcosa” viene alla luce. Questo lavoro catartico è sconvolgente per lo spettatore, lo è anche per te?
Certamente, a condizione di amare i personaggi che si stanno raccontando, sospendendo qualsiasi giudizio morale. Questo non significa per il pubblico identificarsi psicologicamente con un padre che sta per uccidere il figlio, quanto piuttosto riconoscersi in una situazione e confrontarsi con quella realtà nel modo più sincero possibile. Io credo molto nel pubblico, tutt’altro che stupido, e non ho paura di mostrargli immagini ermetiche o figure contraddittorie. Magari i miei film appariranno disturbanti, ma quello che ne consegue per lo spettatore deve deciderlo lui e soltanto lui.
Esattamente come la natura, anche gli animali sono una presenza forte nei tuoi lavori. Vengono sacrificati, feriti, uccisi. I bambini torturano le lucertole oppure evitano di schiacciare le formiche. Tu che bambino sei stato?
Sicuramente polemico e curioso, forse anche troppo. Ho trascorso un’infanzia meravigliosa e selvaggia, così straripante di emozioni e avventure che non sai quanto darei per rivivere almeno uno di quei giorni. E visto che alludevi al bestiario ricorrente nei miei film, da bambino avevo un rapporto “freudianamente” perturbante con gli animali, che fossero domestici o selvatici non m’importava: li percepivo sempre potenzialmente pericolosi nonostante li adorassi. Questa sensazione spiazzante e sinistra l’ho riversata anche nei miei lavori, in particolar modo in So che c’è un uomo.
Chi pensi che sia il peggior nemico del cinema italiano oggi?
Il cinismo e il narcisismo romanocentrico continuano ancora a dettare la linea e questo, a conti fatti, toglie spazio e risorse a cineasti (e storie) magari più radicali ma sicuramente più effervescenti. E comunque non basta un Lo chiamavano Jeeg Robot a fare primavera. Detto questo, da semplice spettatore trovo ottima la qualità delle proposte italiane attuali. Poco tempo fa, rivedendo in TV il documentario Liberami di Federica Di Giacomo, mi ripetevo: che film sorprendente! E la stessa ebrezza possono darmela sia Dogman che Per amor vostro di Gaudino fino a lavori più sperimentali ma altrettanto riusciti come A Ciambra o l’animazione di Gatta Cenerentola.