Un ricordo delle sale cinematografiche, quelle parrocchiali e quelle di quartiere, tra "musicarelli" e Stanley Kubrick
Sono nato a Torino ormai un bel po’ di lustri fa, in un tempo in cui la città si svegliava ogni mattina con un nuovo pezzo di periferia: il costante aumento dell’immigrazione dal Sud faceva sì che nuovi agglomerati urbani sorgessero, nel volgere di un attimo, accanto ai vecchi storici quartieri periferici.
Io, bambino, in quel mondo ci sguazzavo: la mia casa era a due passi dagli stabilimenti Fiat del Lingotto e gli anni dell’infanzia li ho trascorsi suddividendo il tempo libero dagli impegni scolastici tra il correre dietro a un pallone nei prati in riva al Po e il mischiarmi agli operai all’uscita dal turno. Ma, soprattutto, frequentando il vicino cinema parrocchiale che proponeva, accanto alle pellicole di Franco e Ciccio o ai “musicarelli”, qualche buon vecchio film “di spessore”. È quindi certo che abbia avuto inizio lì, sulle scomode sedie in legno di quella vecchia sala ormai scomparsa, la mia passione per la Settima Arte.
Sono ricordi sepolti negli anfratti della memoria che, di tanto in tanto, affiorano alla superficie, portandomi alla mente, alla rinfusa, titoli di pellicole viste in quella sede; che si mescolano a quelle godute insieme a papà e mamma nei cinema “seri” del quartiere. Sale che, negli anni ho visto, mestamente, chiudere una dopo l’altra; magari dopo essersi trasformate, per un periodo più o meno lungo, in cinema a luci rosse.
Alcuni film visti in quel periodo sono ormai indelebili nella mia mente. Come non ricordare, ad esempio, la sera in cui io e mio padre andammo a vedere al cinema Spezia 2001: Odissea nello spazio, uscito forse l’anno precedente? O quella domenica pomeriggio – era il 1972 – in cui mamma mi portò al Continental a vedere Corvo rosso non avrai il mio scalpo, lo splendido western diretto da Sidney Pollack con Robert Redford che interpretava il personaggio di Jeremiah Johnson?
Certo, è ormai assodato che del capolavoro di Stanley Kubrick non colsi appieno il significato - anzi, a essere sincero, non lo colsi per nulla - ma, ancora adesso, ho ben presente l’effetto dirompente che ebbe sulla mia fantasia la lunga scena lisergica del viaggio del protagonista nello spazio. Allo stesso modo rimasi estasiato dal film di Pollack, un western dallo stile totalmente diverso da quello degli spaghetti-western a cui, sino ad allora, ero abituato.
Così come, con qualche anno di ritardo rispetto alla sua uscita (1970), ebbi l’occasione di recuperare Soldato blu di Ralph Nelson, con Candice Bergen, Peter Strauss e Donald Pleasence. Il primo film, come si diceva allora, “dalla parte degli indiani”. Un film che sì, narrava di uno dei massacri più atroci dei bianchi a danno dei nativi, quello di Sand Creek, ma che rappresentava soprattutto una pellicola pacifista; che parlava, senza citarla, di un’altra infame guerra che l’America combatteva in quegli anni, quella del Vietnam.
È quindi naturale che con quelle basi, mantenute e incrementate negli anni, il cinema mi si sia incollato addosso, quasi fosse una seconda pelle. Sono stato prima un consumatore seriale e, poi, lentamente ma con costanza, ho affinato uno sguardo sempre più critico e selettivo. La sala cinematografica è una dipendenza dalla quale mi è impossibile staccarmi e che, prendendo a prestito il titolo dello splendido melodramma di Douglas Sirk del 1954, mi permette di continuare a consumare e apprezzare la mia Magnifica ossessione.