Il 21 marzo 2020 il regista Eric Rohmer avrebbe compiuto 100 anni: ecco perché la passione per il suo cinema accomuna molti di noi, flâneur o no
Oggi il regista Éric Rohmer avrebbe compiuto 100 anni. Se ripenso al suo cinema, al di là delle ricorrenze, la prima domanda è a cosa sia dovuta la mia passione per i suoi film, tanto forte da rendere i luoghi in cui sono stati ambientati dei luoghi della mia esistenza. Viene dal fatto che i suoi film sembra parlino proprio a me o piuttosto dal fatto che sono chi sono anche grazie a loro?
Erano gli anni del liceo quando scoprii la nouvelle vague, che segnò per sempre il destino di tutto il cinema francese; grazie ad essa ogni flâneurtrovò una sua completa espressione, non più relegato nelle pagine dei romanzi ma finalmente libero di girovagare sugli schermi nelle sale dei cinema parigini. Dopo l'arrivo di Jean Eustache, di Jean-Luc Godard, di François Truffaut, si perse il conto dei “camminatori della pellicola” ma tra tutti io mi affezionai di più a quelli di Rohmer. Forse perchè intimamente convinto di essere uno di loro.
Se è vero che il flâneur è per eccellenza un solitario, mentre nelle pellicole di Rohmer predominano i dialoghi, è altrettanto vero che questo secondo aspetto finisce per amplificare il primo: la vitalità, la leggerezza, la mondanità che sembrano caratterizzare i personaggi, non fanno che svelare che sotto quell'apparenza si nasconde (anche) l'esatto contrario; ecco allora il malinteso, l'equivoco, la rottura e il ritornare fatalmente a se stessi, a vagare di nuovo per conto proprio. Ma proprio in questo sta il potere rasserenante, se non consolatorio, dei sui film: dimostrano che siamo irrimediabilmente soli ma che ciò nonostante ci ostiniamo a convincerci, con successo, del contrario.
Quello che interessa Rohmer è la verità dei suoi personaggi, che proprio per ciò non sono né reali (sono attori in un opera di finzione), né verosimili (la recitazione è quasi irrilevante), quanto piuttosto specchio nel quale ciascuno può rivedere la propria esperienza, i propri desideri, la propria complessità.
Lo spettatore diventa egli stesso un flâneur che si ritrova a passeggiare dentro il film, assistendo a scene di vita nelle quali ha l'impressione di essersi imbattuto perchè passava di lì e alle quali potrebbe prender parte. La magia del cinema di Éric Rohmer è tutta lì: nel far sembrare governato dal caso quello che in realtà è tutta scrittura e regia. Finché, poi, con l'ultimo colpo di bacchetta magica, egli scompare dalla scena. Tra tutte le esperienze che ho vissuto insieme a lui, scelgo di ricordarlo con Racconto d'autunno (1998), che considero il mio ultimo film: al suo interno c'ero finito talmente tanto che vent'anni più tardi, anziché rivedere la pellicola, ho scelto di andare nei luoghi dove Rohmer aveva girato. E dove avevo girato anch'io.