Da Il giardino delle vergini suicide a Somewhere: Sofia Coppola si è guadagnata un posto d'onore nel cinema contemporaneo
«Non ho studiato da regista e non ho mai pensato di fare questo lavoro, ma mi ci sono trovata in mezzo e ho provato» - Sofia Coppola
Sofia Coppola è stata la seconda regista a essere candidata agli Oscar per il film Lost in translation, dopo Kathryn Bigelow (che l’Oscar però l’ha anche vinto). Qualsiasi analisi sul cinema di Sofia Coppola deve necessariamente partire da un’ovvia constatazione. Sebbene i suoi film siano ambientati in differenti epoche storiche (Il giardino delle vergini suicide negli anni ’60 americani, Marie Antoinette nel 1700, Lost in Translation nella ultramodernità giapponese), questi sembrano in grado di bypassare l’ordine temporale, anche grazie a un uso accurato della colonna sonora. Ogni storia è universale e senza tempo.
Ma se si parla di tempo, necessariamente si deve affrontare anche l’argomento del racconto e dello scontro generazionale. Ed è proprio da qui che partiremo nell'analisi del cinema di Sofia Coppola.
Genitori e figli nel cinema di Sofia Coppola
È un’America, quella degli anni ’60 in cui si ambienta il film Il giardino delle vergini suicide, infinitamente legata alle tradizioni, che priva le donne di spontaneità e piacere, senza concedere loro una reale emancipazione. Dove gli scontri tra genitori-figli sono molto più accesi e violenti di quelli contemporanei, tanto da assumere le sembianze di tragedie greche. In questo clima infuocato e di riscatto, l’unica via di salvezza è la rivoluzione sessuale. Il giardino delle vergini suicide parla dei giovani degli anni ’60, in cui inevitabilmente lo spettatore è portato a rivedersi, a immedesimarsi.
Ma il rapporto tra generazioni diverse nel cinema della Coppola non è strettamente legato alla relazione genitore-figlio, ma riguarda anche le relazioni sentimentali: come nel caso di Lost in Translation. In questo film si incontrano una neo sposa, interpretata da Scarlett Johansson, e un uomo sposato da quarant'anni, interpretato da Bill Murray. I due si incontrano nella moderna, quanto per loro sconosciuta, Tokyo e qui tra loro nasce una storia d’amore sottile e delicata, vittima però di limiti imposti, e soprattutto autoimposti, che si affida alla “non scelta” dei personaggi.
In questo film ci si chiede costantemente se ciò a cui si assiste sia un incontro o un abbandono, un arrivederci o un addio. Sofia Coppola si fa maestra nel dirigere questa commedia toccante, evidenziando i limiti di due generazioni a confronto e sottolineandone i punti d’incontro.
Coppola può essere considerata una ritrattista che si diverte con le generazioni attraverso dipinti particolareggiati di persone comuni. Dopo molto tempo dalla visione di un suo film, può capitare di dimenticarne la storia... ma i personaggi resteranno impressi indelebilmente.
Se tutto questo non bastasse a convincere chiunque legga che Sofia Coppola vive di un cinema tutto suo - differente da quello del padre - e che merita ogni successo ricevuto, cerchiamo di analizzare più nello specifico Somewhere, piccolo gioiello di cinema contemporaneo.
Somewhere, il capolavoro di Sofia Coppola
Il film narra le vicende di Johnny Marco, interpretato da un sorprendente Stephen Dorff (qualcuno lo ricorderà come il diacono Frost del primo Blade), un divo infelice che vive tra provini, avventure occasionali, interviste improponibili e conferenze noiose nell’hotel Chateau Marmont (per la cronaca: è lo stesso albergo dove Quentin Tarantino girò il suo episodio di Four Rooms, ma soprattutto dove morì l’attore John Belushi).
Sarà infelice fino all’arrivo della figlia Cleo, interpretata da Elle Fanning. Fin qui poco o nulla di originale di cui possa valere la pena parlare, se non fosse per un valore estetico e stilistico che ha del memorabile. Prendiamo, come punto cardine di questa analisi, una breve sequenza che a primo occhio potrebbe risultare persino noiosa, ma che in realtà racconta una storia intima e toccante.
Johnny Marco è in studio per una prova make up. Poco dopo rimane totalmente solo, al centro della stanza e dell’inquadratura, e ha il volto completamente ricoperto di lattice bianco, con due piccoli fori alle narici.
La macchina da presa di Sofia Coppola inizia un lento e lungo zoom che avvicina lo spettatore a quel “mostro”, sbucato per l’appunto da “somewhere”, che è diventato l’attore.
Non c'è forse nel cinema moderno nessuno che sia riuscito a trasmettere e descrivere la solitudine di un uomo, la sua alienazione, attraverso un’unica inquadratura senza dialogo di alcun genere. In quel momento la maschera di lattice diventa un bozzolo dentro cui è chiuso l’attore; tramite i due fori, riesce a respirare, e quindi a sopravvivere, ma non a vivere. E lo sottolinea ancora una volta nella scena successiva, quando viene mostrato un Johnny Marco a make-up ultimato, ossia truccato perfettamente da uomo anziano. Allo spettatore in quel momento finalmente diviene evidente il messaggio: un uomo che oramai non ha più un volto, come nei quadri di Francis Bacon.
Proprio come Lost in Translation, anche in Somewhere parla di contraddizioni. Ci mostra la vita di un divo, che chiunque potrebbe immaginare felice, ma che in realtà è piena di vuoti che si intersecano in una visione sarcastica e contemporanea del loro essere soddisfacenti all’apparenza.
Sofia Coppola in Somewhere affronta un argomento caro alla filosofia, ossia il concetto di felicità e di piacere. E, in quest’ottica, sembra dirci che Johnny Marco - e forse molti di noi - pur vivendo momenti di piacere che appaiono soddisfacenti, non può essere felice perchè privato di qualcosa. E nel film ci mostra questo senso di inquietudine con un vuoto, un non-agire, sin dall’inizio, quando una Ferrari percorre più volte una pista ellittica. Non esiste una meta, nè si cerca, ma si entra in un loop, tanto che l’auto esce spesso dall’inquadratura senza essere inseguita dalla macchina da presa. E la maledizione del protagonista, e nostra, si svela proprio attraverso questi stratagemmi, ossia la figura circolare e la ripetitività.
Al film mancherà forse la redenzione eccessiva dei film di Clint Eastwood o la vivacità di Guy Ritchie, ma la forza e la bellezza del cinema di Sofia Coppola risiede nel tono lieve, delicato e pacato. E nel costruire non aggiungendo ma sottraendo. Il nostro “eroe”, disteso sul letto, osserva le inespressive acrobazie di due lapdancer gemelle che girano, in maniera circolare, attorno al palo. Oppure si ritrova vittima di interviste, che fanno rabbrividire per la pochezza e la superficialità, che si ripetono di tanto in tanto identiche nelle domande e nelle situazioni. O, ancora, vive avventure sessuali di vario genere, incatenato a una vita che non lo rende felice. Esemplari sono i momenti in cui Johnny si addormenta mentre pratica del sesso orale a una ragazza.
Sofia Coppola compie due passi indispensabili per la comprensione totale del film. Da un lato riduce l’uomo ad automa, attraverso la meccanica sessuale, e dall’altro oltrepassa la boa del femminismo per includere l’intero genere umano nella sua visione di noia. Somewhere, film più asiatico che statunitense a livello di riprese, è un capolavoro che colloca inevitabilmente la regista nell’olimpo dei cineasti e ne spiega in pieno il meritato successo ottenuto.
Un’ultima nota sul finale di Somewhere: in contrasto con molte interpretazioni, l’epilogo del film è positivo. È vero che Johnny saluta la figlia e risale sulla sua Ferrari, come se nulla fosse cambiato e a nulla fosse servita la presenza della figlia, ma per la prima volta nel film il protagonista ha una meta. Si spezza la circolarità a favore di una strada retta, come prova tangibile di un cambiamento concreto.