Nonostante le critiche, la stagione 5 di Black Mirror non è affatto più buonista: lo show di Charlie Brooker si è fatto più umano
Il cinema è arte. Arte è libertà di espressione. Libertà di espressione vuol dire rappresentare la realtà in ogni modo possibile, usando spesso metafore più o meno evidenti, celate dietro i generi più disparati. Da questo punto di vista la fantascienza e l’horror sono sempre stati specchi deformanti della nostra realtà, ancor prima che il cinema (e la televisione) diventasse il mezzo d’intrattenimento principale.
Basti pensare a romanzi come 1984 di George Orwell, del 1949; o, ancora prima, a La guerra dei mondi di Wells, datato 1897. Dalle invasioni aliene, metafora della paura della Guerra Fredda, a Godzilla come incarnazione della distruzione nucleare; sino agli zombie di Romero che in fondo siamo noi. Sono tutte declinazioni della nostra realtà, il tentativo di dare uno scossone al pubblico perché apra gli occhi sul mondo che lo circonda e sui pericoli a cui la nostra società sta andando incontro.
Alcuni di questi prodotti celano la propria metafora dietro una chiave di lettura non sempre decifrabile a una prima occhiata, altri nascono proprio con l’intento di “fare riflettere” lo spettatore. A questa categoria appartiene Black Mirror.
Uno sguardo freddo sulla tecnologia
Dal 2011, anno della prima stagione, la serie di Charlie Brooker si è posta al di sopra della quasi totalità degli show tv. Innanzitutto per il formato antologico: ogni puntata è un cortometraggio che rifiuta il concetto di “serialità ossessiva”. Mentre alcuni show si trascinano fino a venti episodi, Black Mirror esordisce con una prima stagione di soli 3 episodi da 50 minuti e nel corso di 8 anni siamo arrivati solo alla complessiva quota di 22.
Il filo rosso che unisce tutti questi racconti è uno sguardo freddo e impietoso sul nostro rapporto con la tecnologia.
Social network, mondi virtuali, marketing estremo, la nostra assuefazione e gli effetti collaterali sia sull’individuo che sulla società. In ultimo il tono. Lo sguardo di Brooker è sempre tagliente, cinico, glaciale, spietato e pessimistico; al punto che spesso, al finire dell’episodio, un latente senso di disagio si insinua nello spettatore. Una cosa non certo consueta per una serie tv.
Le prime due stagioni sono state prodotte e distribuite da Channel 4 in Inghilterra, mentre da noi sono passate su Sky; dalla terza in poi invece lo show è stato salvato da Netflix. E qui sono anche iniziati i malumori del pubblico. Qualcuno dice che non c’è più la cattiveria di un tempo, qualcun altro lamenta una narrazione troppo “positiva”. Dopo l’uscita della quinta stagione lo scorso 5 giugno, i fan sono insorti sul web: Black Mirror non è più Black Mirror, dicono. Troppo buonista, dicono. Ma siamo sicuri che sia davvero così?
Il futuro è oggi
Se le prime stagioni sembravano profetizzare inquietanti avvertimenti, con il passare degli anni quel futuro (anzi, quei futuri) teorizzato da Brooker sì è trasformato nel nostro presente. Forse è per questo che ora le puntate sembrano dirci che il futuro è adesso, che la nostra realtà langue e che il solo modo che abbiamo per salvarci è tornare a essere umani.
Non è un caso che tutti e tre gli episodi siano “ancorati” al 2018 e che nessuno proponga soluzioni particolarmente fantascientifiche. Anzi, spesso la leva narrativa è un oggetto di uso quotidiano, solo leggermente “migliorato”.
Striking Vipers
Nel primo episodio il fulcro sono i videogiochi, oggi resi immersivi dai visori VR, tra non molto da realtà virtuali complete. Due amici che hanno intrapreso vite diverse - uno sposato con famiglia, l’altro scapolo incallito - si ritrovano a giocare a un picchiaduro della loro gioventù. La realtà immersiva però scatenerà in loro reazioni inaspettate che metteranno a dura prova il loro legame.
Smithereens
Nella puntata 2 la metafora è davvero elementare: un autista di Uber carica per una corsa uno stagista di un celebre social network (Facebook, se qualcuno non l’avesse capito), sequestrandolo e pretendendo di parlare con l’alter-ego di Mark Zuckerberg. Il messaggio è forte e chiaro: i social network sono una droga e noi ne siamo assuefatti, ma a chi sta ai vertici non interessa.
Rachel, Jack and Ashley Too
L’episodio più disneyano della serie: il buffo titolo, le canzoni in stile Hannah Montana, il rapporto complicato di due sorelle, una serie di gag imbarazzanti per un episodio di Black Mirror ma perfette per un film pomeridiano su Disney Channel. La puntata più criticata, ma anche la più geniale. Non tanto per la storia raccontata, ma per i vari piani di lettura che vi si possono applicare.
Innanzitutto l’interprete di Ashley Too: Miley Cyrus, che per tutta l’adolescenza è stata proprio la disneyana Hannah Montana. Ashley Too è Hannah: costretta a cantare frasi fatte, buoniste, reprimendo di continuo la propria personalità. Anche l’idea di ricreare la voce di qualcuno partendo da materiale d’archivio riporta alla mente alcune analogie con la prova attoriale del defunto Peter Cushing in Rogue One.
In pratica l’episodio è un film Disney dove il cattivo da fermare… è la Disney stessa! Il messaggio di fondo è: non fatevi fare il lavaggio del cervello.
Se sotto alcuni punti di vista Black Mirror può sembrare più “indulgente” rispetto a prima, è perchè non cerca più di metterci in guardia, ma vuole farci capire che dobbiamo riprendere possesso della nostra umanità, dei nostri sentimenti più puri. Questo piano di lettura si ottiene calando le storie nel nostro quotidiano.
Se si pensa al cinema, questa sovrapposizione è già avvenuta diverse volte: dalla burocrazia estenuante di Brazil di Terry Gilliam (un film che nel 1985 ci aveva visto lunghissimo!) sino a V per Vendetta, che assume un’aurea quasi profetica rivisto oggi. Pellicole che magari 10 anni fa erano solo metafore, ma nel 2019 sono inquietanti racconti della nostra realtà. Black Mirror non è diventato buonista, semplicemente si è fatto più umano. Ma solo per ricordarci l’umanità che stiamo lentamente perdendo.