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Adolescence (2025), il piano sequenza della verità: la recensione della serie tv Netflix

03/05/2025 12:52

Chiara Maria D'Angelo

Recensione Serie TV, Netflix Original, Di Tendenza, Serie Tv Regno Unito, Serie Tv Drammatico, Stephen Graham, Jack Thorne, Owen Cooper,

Adolescence Serie Netflix

4,3 milioni di visualizzazioni, Adolescence è entrata nella top 10 in 91 paesi diventando la quarta serie in lingua inglese più vista nella storia di Netflix.

4,3 milioni di visualizzazioni su Netflix, Adolescence è entrata nella top 10 in 91 paesi ed è diventata la quarta serie in lingua inglese più vista nella storia della piattaforma.

Adolescence è una serie che ha fatto rumore. Non un clamore qualunque, ma un’onda lunga che ha travolto lo schermo e oltrepassato i confini del semplice prodotto di intrattenimento. Nei primi quattro giorni ha registrato 24,3 milioni di visualizzazioni su Netflix, è entrata nella top 10 in 91 paesi ed è diventata la quarta serie in lingua inglese più vista nella storia della piattaforma. Ma non è questo il dato più importante.

Protagonista Adolescence Serie Netflixadolescence-recensione-serie-tv-17.webp

Adolescence ha scavalcato la fiction. Ha fatto il suo ingresso nelle aule scolastiche, nelle camere dei ragazzi e delle ragazze, nelle agende dei ministri. Ha smesso di essere “serie” per diventare strumento, dibattito e urgenza politica. 

 

In Adolescence si racconta un mondo dove l’infanzia ha perso il suo incanto, per lasciare che a mettere radici sia invece un’insicurezza profonda capace solo di rendere la pubertà una fase malsana e violenta. Non è un racconto distopico, è la realtà, la nostra realtà. Quella che pensavamo fosse una battaglia tutta italiana, che qualunque docente vive quotidianamente tra i banchi di scuola, in realtà si rivela essere il risultato di una globalizzazione del pensiero.

Di che cosa parla Adolescence

Un buco nero generazionale che risucchia tutto ciò che gli gira intorno, per poi smettere di essere semplicemente generazionale. Questa è la realtà che trapela dai quattro episodi scritti da Stephen Graham (anche attore nella parte di Eddie Miller) e Jake Thorne. Partiamo dall’adolescenza, quella fase della vita in cui si cerca se stessi, si prova a costruirsi nel mondo, ci si afferma attraverso le relazioni umane, e finiamo con un’età adulta spaesata, afflitta, sconfitta da un tempo che scorre veloce e non sembra mai fermarsi. Più lo rincorri, più ti sfugge. 

 

Così il regista Philip Barantini, insegue questo tempo che scivola via, ma al contempo si insinua nella vita di tutti, attraverso il piano sequenza, unica tecnica utilizzata in tutti e quattro gli episodi. Questa scelta ti fa sentire inerme, vittima di un sistema inarrestabile, in cui qualsiasi ruolo tu abbia nella società, finisci per essere solo spettatore. 

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L'uso del piano sequenza in Adolescence

Seppur il piano sequenza sia il segno autoriale del regista - ne è un esempio il film Boiling Point (2021), girato interamente in un’unica ripresa - in Adolescence, il piano sequenza raggiunge la sua acme espressiva. Il suo uso si allontana dall’essere semplice manifesto di virtuosismo tecnico, di maestria registica, è un legame viscerale che si intreccia alle pieghe emotive dei personaggi, alla tensione della storia, e si annoda – stretto – alla percezione di chi guarda. 

La polizia a cui è assegnata l’indagine, l’ispettore capo e il sergente capo, gli insegnati, gli studenti, la famiglia, la psicologa, le guardie carcerarie, Jamie Miller e noi, con loro, siamo incatenati da un filo che non guida, ma trattiene, e affonda nel subconscio collettivo, trascinati in una storia senza stacchi, senza montaggio: una storia vera. 

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E il “vero” riporta agli anni '20, in Russia. Da un lato Dziga Vertov che, con il suo “cine-occhio”, voleva catturare la vita colta sul fatto, ma non si accontentava di registrarla. La smontava, la scomponeva, la rimontava: la riscriveva al montaggio per rivelarne il senso più profondo, quello invisibile agli occhi. Il montaggio era il suo modo per gridare la verità attraverso l’illusione. Eppure, quella verità era pur sempre una costruzione. Una selezione. Una presa di posizione. 

Dall’altro lato, Alexander Dovzhenko, più vicino a Barantini, che nella sua ricerca della verità rifiuta il montaggio come strumento che frammenta e manipola la realtà. Cattura la verità nella sua interezza, senza distorsioni, per immergere lo spettatore nelle emozioni pure e incontaminate che essa suscita. 

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Adolescence: qual è la realtà?

Analogamente, in Adolescence, la realtà è impermutata, invariata, austera nella sua drammaticità: intatta. Il regista ha deciso di lasciare libero il flusso dell’esasperazione degli attori, della troupe esecutiva e tecnica. Ha permesso che l’omicidio, la sofferenza, la paura non venissero interrotti, ma fluissero nel mare di una società che annaspa tra le onde. È una scelta radicale, quella del piano sequenza. Una dichiarazione di intenti che sfiora la ribellione. Non c’è taglio, non c’è fuga: lo sguardo resta incollato addosso ai personaggi, li pedina, li respira, senza filtri, senza salvagente.

 

Quella di Adolescence è una regia immersiva che educa a un’etica dello sguardo, scomparendo dietro la camera, facendo un passo indietro e uno avanti alla realtà, pungente e asfissiante, che tocca tutti e ci ricorda che guardare significa essere partecipi.

La domanda è: quanti di noi si sentono partecipi dell’andamento della società di cui siamo parte integrante? Il dinamismo battezzato dalla statua di Boccioni (Forme uniche della continuità nello spazio) delinea un concetto di tempo che non s’arresta davanti al passato -come storia, guerre e arte- e ne ingloba il limite. 

 

Se allora rappresentava il superamento di tutto ciò che veniva prima, oggi quel dinamismo si è trasformato in corsa contro il tempo, in una vertigine senza tregua, dove l’urgenza ha soppiantato la visione. Il sé, per esistere, deve oggi modellarsi su aspettative esterne, adattarsi a standard e codici invisibili ma inflessibili. 

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Fuori da questi, il futuro si dissolve, si fa evanescente, fragile, quasi irraggiungibile. Il “cogito ergo sum” ha perso la sua forza fondativa: pensare non basta più per essere, se nessuno ti guarda, se nessuno ti riflette. È l’altro a certificare la tua esistenza. Un’esistenza che si costruisce a specchio, priva di radici autonome, esposta alla frantumazione ogni volta che manca lo sguardo, il like, l’approvazione. Le relazioni si fondano su un algoritmo di cui non solo è succube Jamie Miller (Owen Cooper), ma i giovani di tutto il mondo. Con il piano sequenza, la realtà ha fatto irruzione senza chiedere permesso, nuda e senza filtri. 

 

Non è più possibile chiudere gli occhi: l’infanzia si è incrinata. Non per scelta, ma per necessità. Per collisione con un mondo distorto, che non offre riparo ma solo frustrazione, silenzio e disorientamento. 

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Un'indagine che non approda da nessuna parte

Adolescence si muove tra queste crepe, seguendo i fili spezzati di un’indagine che non approda a nessuna verità salvifica. Non c’è soluzione, non c’è catarsi. Nessuna vittoria narrativa. Solo una mappa inquieta, tracciata segno dopo segno, in cui ogni gesto, ogni assenza, ogni dettaglio converge verso un unico punto cieco rimasto a lungo invisibile agli occhi degli adulti, tanto nella serie quanto nella realtà: la comunità incel– involuntary celibate, celibe involontario. Un sottosuolo digitale dove il disagio maschile cresce in apnea, si nutre di solitudine, si sedimenta nella rabbia fino a diventare detonatore silenzioso di violenza.

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Un ecosistema chiuso, linguisticamente codificato, costruito su neologismi, soprannomi e mitologie tossiche, che attingono a piene mani dal mondo distopico di Matrix delle sorelle Wachowski, dove la red pill (pillola rossa) offerta da Morfeo a Neo non è più una presa di coscienza, ma si trasforma nella black pill (pillola nera): una condanna definitiva, un’ideologia nichilista che giustifica l’emarginazione e legittima la vendetta. E qui, anche se lontani dalla Terra di Mezzo, è nata una nuova lingua oscura – la manosphere – dove la frustrazione diventa dottrina, si consuma in crimine. In questa narrazione tossica e totalizzante, Jamie (come Filippo Turetta, Mark Samson, Stefano Argentino e tanti altri) ha rotto il filtro tra tastiera e carne, e ha trasformato la sua rabbia passiva in rivendicazione attiva, violenta, macchiata di sangue.

E mentre Jamie si muove nel silenzio della sua rabbia, immerso nell’abisso del mondo digitale, gli adulti – l’ispettore Luke Bascombe (Ashley Walters), il sergente Misha Frank (Faye Marsay), la psicologa Briony Ariston (Erin Doherty), i docenti, la sua stessa famiglia – restano fermi, aggrappati a un tempo che non esiste più. Proiettati nel passato, in coordinate culturali che hanno perso ogni validità, vengono travolti da una realtà che non riescono più a decifrare.

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Tutti noi adulti restiamo indietro, colpevoli non solo di ignorare, ma di non saper leggere. Incapaci di cogliere i segnali del disagio, il nuovo linguaggio del dolore, l’urgenza muta che cresce tra i banchi di scuola e dietro gli schermi, dove i bambini vedono violenza, respirano solitudine e si raccontano solo attraverso simboli, like, status. Crescere in questo tempo significa smettere troppo presto di essere piccoli, perché il mondo non aspetta, non protegge, non ascolta.

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