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La felicità è un sistema complesso

23/11/2015 11:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

La felicità è un sistema complesso

Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) fa un lavoro stranissimo: circuisce dirigenti titubanti di grandi aziende, quelli che sono drammaticamente stretti tra il sen

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Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) fa un lavoro stranissimo: circuisce dirigenti titubanti di grandi aziende, quelli che sono drammaticamente stretti tra il senso del dovere e il bisogno di una vita nuova, e li convince a lasciare il loro lavoro, salvando le imprese dal fallimento. Lo fa con una tecnica degna dei persuasori occulti: li avvicina, entra nelle loro grazie e li convince facendo sembrare la decisione una scelta maturata e consapevole. Un giorno entrano nella sua vita Achrinoam (Hadas Yaron), Filippo e Camilla. E niente sarà più lo stesso.


La felicità è un sistema complesso: dura poco, è sempre una questione di equilibrio. Come nel film di Gianni Zanasi, presentato al 33mo Festival di Torino e assente per lungo tempo dal grande schermo. Dopo ben sette anni da Non pensarci, il regista sfoggia nuovamente un Mastandrea in forma smagliante per raccontare una storia onirica e disperata, che parla di personaggi quasi spacciati, barcollanti nelle circostanze della vita. Sembra voler partire dal parlare di una professione, sullo sfondo la crisi economica e la legge del più forte, ma si avverte subito come tutto questo sia solo un pretesto per raccontare qualcos’altro, che suona come musica, come un’esplosione improvvisa che sveglia dal torpore. E quando meno te lo aspetti il film si apre alla musica dei Nouvelle Vague (con la celebre cover di "In a Manner of Speaking"), ai Dead Can Dance, ai Cani.


La dimensione lavorativa è solo una delle tante gabbie in cui sono rinchiusi i personaggi del film. Accumunati da un passato, mai invadente nella storia, che ha portato a un tempo presente che non è una dimensione felice, ma alla quale ci si rassegna, adattandosi. Enrico fa un lavoro che forse non vuol più fare, e lo fa fingendo sia una forma di riscatto. Poi c’è una donna, alla deriva, che si finge in attesa di qualcuno che sa che non ha mai avuto davvero. E ci sono i comprimari, stretti nei loro ruoli ingessati e apparentemente soddisfacenti, ma che si iniettano momenti di felicità sintetica per sognare, anche se stanca. La dimensione narrativa della prima parte è un po’ imbrigliata: tanti i temi incastonati sullo sfondo, che sembrano appesi senza una vera logica. Poi però arriva il turning point narrativo, con l’incidente, ed ecco che la vera dinamica di cambiamento viene affidata ai più giovani. Attraverso il loro punto di vista, anche quando perso nel vuoto, esplodono a una a una le innumerevoli tematiche che compongono la matassa narrativa, in questo groviglio di dialettica generale/personale. È qui che Zanasi trova un minimo comune denominatore alla felicità del titolo. Visionario e delicato, sospeso e sinuoso, questo film alterna la potenza visiva di alcune sequenze, forti come un punto e a capo in una babele di parole, a momenti di beffarda ironia dei dialoghi senza senso dei protagonisti. Queste scene sono talmente spiazzanti nell’elargire momenti di credibile intimità da far sentire lo spettatore un ladro di emozioni. Qualche incertezza e qualche momento di debolezza nella sceneggiatura c’è, e il finale è un tantino debole. Ma La felicità è un sistema complesso, per ammissione dello stesso regista. È quella situazione funambolica che ti tiene su con la stessa leggera velocità con la quale poi ti sbatte definitivamente sul pavimento. È la gravità, la vera forza da combattere. Come i mulini a vento? Può darsi. Ma nel mentre, che (e)brezza ragazzi.


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