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È solo la fine del mondo (2016), la recensione: Xavier Dolan dirige una nuova intensissima opera

11/12/2016 12:00

Eleonora Piazza

Recensione Film,

È solo la fine del mondo (2016), la recensione: Xavier Dolan dirige una nuova intensissima opera

Il ragazzo prodigio del cinema Xavier Dolan dirige una nuova intensissima opera

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Il ragazzo prodigio del cinema Xavier Dolan, regista, attore e sceneggiatore, dirige una nuova intensissima opera: È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde), nonostante la difficile accoglienza della critica, si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria a Cannes e verrà candidato dal Canada agli Oscar come Miglior Film Straniero.


Louis (Gaspard Ulliel) è un drammaturgo di successo, che dopo anni torna a far visita alla sua famiglia in campagna, per annunciare una notizia importante e sconvolgente. Ad accoglierlo c'è un microcosmo nevrotico che cerca, con irruenza, di scaraventargli addosso il suo amore, ma che finisce per veicolare soltanto nostalgia e il rancore che la sua lunga assenza ha comportato. Nei confronti di Louis un’invidia latente si alterna costantemente a una volontà di coinvolgerlo, al tentativo di riportarlo al passato, soffocandolo con i ricordi sereni della sua infanzia, che scavano però in lui un baratro di rimpianti e felicità interrotte.


L’universo poetico di Dolan, che da sempre si snoda attorno figure e personaggi unici e dai legami struggenti, trova in quest'opera la sua sublimazione grazie all’incontro con il teatro. Il film è l’adattamento della piéce teatrale di Jean-Luc Lagarce dal titolo omonimo, dal quale il regista riesce a estrarre, con lucidità e fedeltà, un linguaggio autentico e realistico che non si presta forse direttamente a quello cinematografico, ma che fa di questo “deficit” un plus valore e che trova in questa umanità tutta la sua forza espressiva. In fondo è questo che interessa da sempre a Dolan: raccontare l’essere umano, nelle sue reazioni più autentiche, indisciplinate e restie a fittizie categorizzazioni.Un tripudio di emozioni, che colpiscono dritte allo stomaco, grondano dalle immagini dai toni bluastri e si addensano nel clima di oppressione che avvolge la narrazione, arrestando il respiro. Isteria, desolazione, senso di inferiorità e ansia da prestazione di una famiglia alle prese con il suo personale dramma. Ognuno dei personaggi sembra essere racchiuso in un’ampolla di vetro in cui la neve artificiale ha sepolto traumi del passato che, adesso, sembrano lì lì per sciogliersi. L’affetto opprimente della madre (Nathalie Baye) si oppone all’aggressività del fratello Antoine (Vincent Cassel), mentre sua moglie Catherine (Marion Cotillard) cerca in tutti i modi di comunicare con l’ospite, a lei sconosciuto. Suzanne (Léa Seydoux), la sorella scapestrata, perennemente seconda alla genialità di Louis si dimostra il personaggio ad aver maggiormente sofferto dell’abbandono. Dialoghi concitati, e talvolta insicuri, veicolati da un cast d’eccezione, sconvolgono lo spettatore che sarà in grado di metabolizzare il tutto soltanto, e non per certo, al termine dei titoli di coda.


Dolan mantiene l’assetto teatrale originario, ambientando l’intera pellicola in una sola location - la casa - che permette all’intreccio si dispiegarsi mano a mano che i personaggi si spostano nell’ambiente, cambiando stanze e andando ad aggiungere ulteriori tasselli al quadro di insofferenza generale. L’unico momento in cui è prevista una “boccata d’aria”, la sequenza di Louis e Antoine in macchina, si rivela la più struggente del film. Primi piani, flashback e sguardi che esprimono ciò che mai verrà detto, e sotto le note delle musiche realizzate da Gabriel Yared, per una storia di distacco e amara liberazione.


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