Abbandonato il seminario per una crisi di coscienza - siamo nei primi anni Sessanta - Accio torna dalla sua famiglia a Latina, dove però non trova un’accoglienza calorosa: trascurato rispetto al fratello e alla sorella più grandi, per problemi economici gli viene negata la possibilità di accedere al liceo classico e viene quindi avviato agli studi da geometra. Così, un po’ per ripicca nei confronti della famiglia operaia, un po’ per l’influenza di un amico, Accio si dichiara fascista e partecipa alle azioni dell’MSI, entrando in contrasto con il fratello Manrico, attivo nei movimenti di estrema sinistra. L’amore/odio fra i due continuerà fino alla conversione di Accio alla causa comunista, ma alcuni eventi li costringeranno a separarsi. Dopo la Germania con Le vite degli altri e la Spagna con Salvador, anche l’Italia guarda al proprio passato, e nello specifico al decennio compreso fra i primi anni Sessanta e l’inizio dei Settanta: Mio fratello è figlio unico, a dispetto del titolo mutuato da una canzone di Rino Gaetano, è tratto dal romanzo Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi. Diretto da Daniele Luchetti e scritto, oltre che dal regista stesso, da Sandro Rulli e Stefano Petraglia, gli autori in un certo senso adottano nuovamente lo sguardo de La meglio gioventù: non un film politico ma, come dichiarato da Daniele Luchetti, un film incentrato su persone che fanno politica. Ed effettivamente è proprio il lato umano a prevalere. Attraverso due vicende e due caratteri diversi, quelli di Accio e Manrico, il film mette a nudo non solo gli ovvi limiti della cultura fascista, ma anche le contraddizioni e le ingenuità dei movimenti di estrema sinistra dell’epoca, soprattutto nella discutibile strumentalizzazione dell’arte (esemplare in tal senso la sequenza con l’esecuzione dell’Inno alla gioia). Non è però un prodotto apolitico, sia chiaro: la militanza degli autori si avverte di continuo e soprattutto in un finale che, pur raccontando un gesto forte a vantaggio dei cosiddetti "ultimi", riesce a evitare ogni facile retorica. Daniele Luchetti, camera a spalla e inquadrature strettissime, dirige con vivacità un film sincero, che sa strappare più di un sorriso e che fa dimenticare la scarsa credibilità di un Riccardo Scamarcio in tuta da operaio, con tanto di megafono e slogan rivoluzionari. Ma il vero protagonista, comunque, è Elio Germano.