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Sulla mia pelle

30/08/2018 10:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

Sulla mia pelle

La vicenda di Stefano Cucchi, morto dopo soli sette giorni di detenzione

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Sulla mia pelle, diretto da Alessio Cremonini, è uno dei film italiani che apre la mostra del cinema di Venezia, edizione 75, presentato nella sezione Orizzonti. Il film, distribuito contemporaneamente in sala e su Netlix, racconta la vicenda di Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009 dopo soli sette giorni dalla sua detenzione per mano e omertà di dovrebbe garantire ordine e diritto alla salute. Interpretato da uno strepitoso Alessandro Borghi, che per questo ruolo ha trasformato il suo fisico e la sua voce, Sulla mia pelle ci regala una delle performance migliori della sua intensa carriera da attore.


Una manciata di giorni, solo sette, che restano sulla pelle di un attore, ma anche sulla quella degli spettatori. Sette giorni, sembra assurdo, eppure bastano per raccontare in maniera asciutta e priva di fronzoli la devastazione di un giovane ragazzo e della sua famiglia, tenuta lontano dalla verità. Stefano Cucchi è protagonista di uno dei fatti di cronaca nera più tristi e ancora irrisolti del nostro Paese: un giovane romano che muore mentre si trova in custodia cautelare, per fatti che sono ancora da accertare.


Un film che va diretto al punto, quello di Cremonini. Ci troviamo immediatamente in una stanza, quella in cui Stefano viene trovato morto dal personale della struttura in cui si trova in custodia. Poi il film fa un testacoda e inizia dal primo giorno a raccontarci cosa è avvenuto da quando Stefano è stato fermato da due carabinieri per possesso e spaccio di sostanze stupefacenti. Quello a cui assistiamo è un racconto onesto, in cui non ci sono colpevoli, ma solo “accusati”. In cui non ci sono immagini violente, ma quello che viene fuori è una brutale sensazione di non-sense.


La sceneggiatura, scritta da Lisa Nur Sultan con lo stesso Alessio Cremonini, lascia allo spettatore tante e diverse emozioni. Siamo con Stefano mentre, ammettendo il proprio passato, si mostra come un ragazzo sofferente, che ha sbagliato e ne è consapevole, ma che nonostante le ricadute si alza tutte le mattine per andare a lavorare da geometra con suo padre. Siamo con lui mentre lo allontanano dal suo avvocato, dalla sua famiglia, quasi a espiare colpe che sono ben più lievi di quelle dei suoi presunti carnefici. Il tocco della macchina da presa è schietto, ma non spietato. Non ci mostra il momento delle percosse, ma ce lo fa rivivere, in maniera indiretta e per costruzione, attraverso il dolore del suo protagonista. È lui al centro delle vicende: la scelta registica è di tenere tutti gli altri comprimari solo degli spettatori da diverse angolature.


La famiglia diventa simulacro di ciò che l’omertà ha prodotto, di impotenza davanti a un sistema che a volte è davvero crudele. I carnefici non ci sono quasi: sono solo sguardi, occhi che minacciano incombenti da lontano, le cui conseguenze influenzeranno le scelte e gli errori di Stefano. I giudici e il personale ospedaliero non sono altro che elementi impassibili di un meccanismo che frattura le ossa, complici silenziosi di un mondo marcio che dimentica, che si gira dall’altra parte quando ha paura di scoprire una verità scomoda. Tutta la struttura narrativa si regge sull’interpretazione immensa per quanto credibile di Alessandro Borghi, che riesce a trasmettere con i gesti, con le corde vocali, con gli occhi tutta la rassegnazione di chi sta capendo che non gli resta molto al mondo, se non accettare il suo triste destino.


L’impotenza si fa carne e lividi: questo lento morire del corpo, enfatizzato dal rifiuto del protagonista ad ogni forma di dialogo che non sia alla pari (con vicini di cella, ad esempio) è rappresentazione di quella speranza tanto cara a Stefano stesso, che lentamente si consuma assieme al corpo.


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