Tra cambi di registro, storyline abbandonate (che fine ha fatto il figlio di Chucky dopo il quinto capitolo?) e un restyling in corsa per il protagonista, nel 2017 la saga de La bambola assassina giunge al settimo capitolo, uscito in patria direct-to-video. Un film che può considerarsi come "ultimo capitolo" in tutti i sensi, sia per un finale a modo suo appagante per tutti i fan che hanno seguito le gesta di Chucky/Charles Lee Ray nel corso di 30 anni, sia perché lo scorso giugno è arrivato al cinema un remake/rebooth che ignora totalmente tutto ciò che è stato detto prima, mantenendo come unico caposaldo il bambolotto assassino. A scrivere e dirigere c’è ancora il creatore della saga, Don Mancini, che dal quinto capitolo in poi si è fatto carico non solo delle sceneggiature (tutte e sette firmate da lui) ma anche della regia. E se con Il figlio di Cucky si era dimostrato abbastanza ingenuo e grossolano, è bello notare come in soli tre film (anche se spalmati su di un arco di 13 anni) le sue abilità siano maturate, regalando agli spettatori alcuni momenti davvero iconici. Anche se, va ammesso, la parte più ghiotta della saga restano le sceneggiature di Mancini, sempre colme di idee, che provano di volta in volta ad aggiungere qualche innovazione, cosa non facile se si parte dal presupposto che il protagonista è un bambolotto posseduto da un serial killer. Eppure, al contrario della sfilza di sequel-fotocopia generati da Halloween o Venerdì 13, Mancini ci ha sempre creduto e, anche nei capitoli più maltrattati, si è sempre distinto per le sue capacità narrative. Ebbene, anche con Il culto di Chucky (un titolo che tutto un programma e che suona come una lettera d’amore verso i fan della saga) le aspettative verranno ripagate e le idee non mancheranno, anzi. La storia riprende le fila lasciate in sospeso da La maledizione di Chucky. Ritroviamo Nica (la protagonista del precedente film, interpretata sempre da Fiona Dourif) rinchiusa in un istituto psichiatrico dopo essere stata dichiarata colpevole degli omicidi del precedente film. Ritroviamo anche (in una scena iniziale da applausi) il “piccolo” Andy Barcley, protagonista dei primi tre episodi, ormai cresciuto, ma ancora perseguitato dall’incubo della bambola assassina. Basta, questo è tutto ciò che si può dire della storia perché questa volta Mancini ha davvero calcato la mano, rendendola un dedalo d’imprevedibilità e colpi di scena. Una sorta di gioco a scatole cinesi davvero affascinante, che però sarà fruibile solo ai fan più accaniti di Chucky per la quantità di rimandi e richiami alla mitologia trentennale del Tipo Bello. Un culto appunto, che prende vita nella realtà quanto sullo schermo; un film accessibile solo ai puristi, ma d’altronde chi altri vedrebbe questo settimo capitolo senza conoscere gli altri? Dal punto di vista stilistico Don Mancini prosegue sulla linea del film precedente, ragionando ancora una volta per sottrazione e asciugando tutto ciò che non è essenziale alla storia (una condizione dettata anche dal budget esiguo, ma va benissimo così). Alle atmosfere neo-gotiche de La Maledizione di Chucky, tutte corridoi bui e giochi di penombra, qui contrappone il bianco spiazzante dell’istituto psichiatrico, dove non ci sono ombre in cui nascondersi. In compenso il sangue (che abbonda grazie anche a omicidi sempre più fantasiosi) si vede benissimo! Un inevitabile spoiler per chiudere. Per quanto il finale sia apertissimo (c’è persino una scena dopo i titoli di coda) è anche una quadratura perfetta del cerchio iniziato da Mancini nel 1988; un passaggio di testimone sia dal punto di vista narrativo (Nica che diventa effettivamente Chucky) sia meta-cinematografico, con Fiona Dourif che eredita lo scettro del personaggio più famoso e longevo interpretato dal padre. Con il nuovo remake appena arrivato in sala è improbabile che questo filone narrativo possa proseguire, ma mai dire mai. Nel frattempo comunque possiamo accontentarci di un finale appagante per gli adepti più stoici del Culto di Chucky.