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C'era una volta a... Hollywood

16/09/2019 11:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

C'era una volta a... Hollywood

C'era una volta a... Hollywood è cinema allo stato puro

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C'era una volta a... Hollywood è cinema allo stato puro. “Cinema” inteso in tutte le declinazioni possibili che Quentin Tarantino esamina, esplora, omaggia, venera, rimescola e - in parte - riscrive sotto forma di favola crepuscolare. Infatti quel Once upon a time non è messo lì a caso, non è un mero omaggio a Sergio Leone (che, come “non” viene detto nel film, è il più grande regista di spaghetti-western al mondo), ma assume un significato più profondo al termine dei 161 minuti di visione. Se non fosse che Quentin Tarantino ha dichiarato che girerà almeno un altro lungometraggio (il decimo) prima di appendere la cinepresa al chiodo, C'era una volta a... Hollywood suonerebbe come l’epitaffio di una carriera: la lettera d’amore di un suicida alla propria amante. Innanzitutto c’è Hollywood, che fa da sfondo alla vicenda e che nel 1969 era ancora la terra dei sogni, fatta di cinema, ristoranti, ville di lusso, feste private, studi di produzione, illuminata dalle luci al neon e dalle star che vi ci abitavano. Tarantino si focalizza su questo microcosmo, rendendolo un piccolo Eden, un luogo da favola appunto, ignorando del tutto il resto di Los Angeles, quella dei boss, degli spacciatori e dei sicari che ci ha raccontato in altri film.


Al centro della vicenda tre protagonisti fagocitano la scena. Leonardo DiCaprio è Rick Dalton, star sul viale del tramonto, confinato a ruoli di cattivo e guest-star in show televisivi. Brad Pitt è Cliff Booth, la sua controfigura/tuttofare/miglior amico, che vive con il suo cane in una roulotte dietro un drive-in e con cui gli studios preferiscono non lavorare a causa delle voci che circolano sul suo conto (pare abbia ucciso la sua ex-moglie). E poi c’è Margot Robbie nei panni di Sharon Tate, vittima designata sin dall’inizio del film, che Tarantino poggia su di un piedistallo come se fosse una musa, costruendole attorno ogni scena in cui compare: accarezzandola, ritraendola, venerandola, dando profondità a ogni suo gesto, ammiccamento, sorriso. Basti pensare alla cura maniacale dei dettagli nella sequenza in auto, quando lei si toglie il foulard e libera i capelli biondi nel vento della sera. Attorno a loro orbita una galassia di star in ruoli marginali, da una carrellata di volti noti nel cinema di Tarantino (Kurt Russell, Zoe Bell, Michael Madsen, Omar Doom e Bruce Dern nella parte inizialmente destinata a Burt Reynolds) a cui si affiancano vecchie glorie (Al Pacino su tutti, ma anche Nicholas Hammond e Luke Perry nella sua ultima apparizione) e una manciata di altri nomi di spicco (Dakota Fanning, Emile Hirsch, Lorenza Izzo e Harley Quinn Smith giusto per citarne alcuni).


Tutti questi personaggi si muovono come se fossero sull’orlo del baratro: è 1969 e il mondo sta cambiando velocemente. Woodstock, la guerra del Vietnam, il movimento hippy, lo sbarco sulla Luna, Nixon presidente, Easy Rider e poi, ovviamente, la Family di Charles Manson. Tutte queste vicende rimangono su uno sfondo lontanissimo, che non intacca l’Eden hollywoodiano; eppure di tanto in tanto l’eco di questo cambiamento riecheggia sin lì, ripercuotendosi nell’industria cinematografica. Perché C'era una volta a... Hollywood racconta uno star system che non esiste più o forse non è mai esistito. Quentin Tarantino parla del cinema al cinema, filtrandolo attraverso quella miriade di personaggi invisibili, stuntman, attrezzisti, manovalanza varia che ha contribuito a quell’epoca d’oro e che ha letteralmente costruito il mito di Hollywood come lo conosciamo oggi. In questo senso il declino di Rick Dalton è metafora di quello dell’industria cinematografica a cavallo tra i ’60 e i ’70. Tarantino ci racconta tutto questo attraverso la vita sul set, i backstage e soprattutto le produzioni (passate e presenti) a cui Rick prende parte: una buona porzione del film è infatti un susseguirsi di scene madri, western ovviamente, interpretate da Rick. Omaggi più o meno smaccati a (una parte di) cinema che l’ha forgiato, di cui va ghiotto; ed è commovente l’affetto che riserva a maestri nostrani come Sergio Corbucci e Antonio Margheriti. Un cinema marginale, di serie B, che molti ignorano, ma che è vicinissimo, fondamentale per nutrire la Hollywod che conta, come due ville confinanti separate solo da un muretto: da una parte vive una star che non ha mai davvero brillato come Rick Dalton, dall’altra due stelle come Roman Polanski e Sharon Tate.


Per raccontarci tutto ciò Tarantino attinge a tutta la sua cultura cinematografica, scavando come mai prima d’ora nel passato, portando ogni cosa all’eccesso (i personaggi di Bruce Lee e Steve McQueen, resi caricaturali da Mike Moh e Damian Lewis), inanellando tutte le sue ossessioni, il suo godimento, gli inside joke rivolti al pubblico. Ma più di ogni altra cosa C'era una volta a... Hollywood è cinema, inteso come racconto per immagini. Mai come in questo caso Quentin Tarantino rinuncia ai tratti distintivi del suo stile: la storia è semplice e lineare, non ci sono salti temporali, attorcigliamenti narrativi, divisioni in capitoli. Se pensiamo a quell’opera teatrale verbosissima che era The hateful eight, qui non ci sono nemmeno i suoi consueti dialoghi-fiume, né i monologhi memorabili: piuttosto, una regia mai così priva di fronzoli. Essenziale ed efficace, in grado di raccontare tutto ciò che serve sapere su un personaggio semplicemente con una carrellata laterale. Un Quentin Tarantino in stato di grazia, romantico e malinconico, che con quel finale e quel titolo ci ricorda che il cinema è soprattutto un sogno.


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