Retrospettiva di un mito: King Kong dal 1933 a oggi
Dalla sua prima apparizione sul grande schermo fino alle più recenti uscite nelle sale cinematografiche, la figura di King Kong, l’ottava meraviglia del mondo, non ha mai cessato di incantare il pubblico e di spingere a riflettere sulle implicazioni - tutt’altro che banali - della sua identità specifica.
L’immenso gorillone, incarnazione per antonomasia della potenza espressiva della Settima Arte, si staglia nell’immaginario collettivo lanciando un severo monito contro l’arroganza dell’uomo, auto-elettosi sovrano (per non dire dittatore) di un pianeta che in realtà mostra continuamente di sottrarsi alle possibilità del suo controllo e manipolazione.
Sin dal suo esordio del 1933, risalente al capolavoro di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, Kong si presenta come spettacolare emblema della forza primigenia e indomabile della Natura, dinnanzi alla quale la hybris peculiare della nostra specie non può accettare di chinare il capo: l’invasore umano dapprima stringe in catene la prodigiosa bestia, per esporla al comodo ludibrio dei propri concittadini, e infine decide di abbatterla nel momento in cui essa, liberatasi dai lacci, innalza il suo messaggio eversivo sino alla vetta più alta della civiltà, rappresentata dall’Empire State Building.
Il successivo crollo a terra dello straordinario animale, ormai ridotto a spoglia esanime, è l’ultima traccia di un miracolo drammaticamente spezzato, l’infame marchio di una profanazione imperdonabile. Esiste tuttavia, accanto a questa lucida denuncia della rapacità colonialista e delle mire egemoniche del capitalismo, un’ulteriore e più romantica chiave di lettura della pellicola: ispirandosi al motivo de La bella e la bestia, Kong diviene infatti la personificazione dell’Eros cieco e selvaggio, il quale, ammansito dalla bellezza, si genuflette al sentimento dell’Amore fino all’estremo sacrificio di sé stesso. Qualunque sia la prospettiva adottata, il primo King Kong resta una pietra miliare della storia del cinema, creatore di un modello narrativo e di un’iconografia in seguito più volte reiterati, ma mai in grado di raggiungere le vette eccelse del capostipite.
Ad avventurarsi, in tal senso, sull’arduo sentiero della replica fu innanzitutto la stessa RKO Pictures, casa di produzione del titolo originale, che sulla scia del clamoroso successo ottenuto al botteghino incaricò immediatamente Ernest B. Shoedsack di girare un sequel, uscito lo stesso anno col titolo Il figlio di King Kong. La pellicola si rivelò assai modesta nelle ambizioni e nel risultato, ma ebbe se non altro il merito di lanciare la figura di Kiko, diretto discendente del Signore dei gorilla, contraddistinto da un manto albino e da un’indole più tenera che spaventosa.
Kiko ispirerà a propria volta il personaggio di Joe, simpatico primate protagonista de Il re dell’Africa (affidato ancora una volta all’accoppiata Cooper-Shoedsack nel 1949), del quale è stato poi fatto un remake con Il grande Joe (1998).
Negli anni Sessanta il mito di Kong attraversa il Pacifico e sbarca direttamente nella terra del Sol Levante, fresca patria di un’altra formidabile creatura cinematografica, Godzilla.
È proprio il regista di quest’ultimo, Ishiro Honda, a dirigere nel 1962 Il trionfo di King Kong, divertente b-movie coprodotto da Giappone e Stati Uniti che vede i due mostri impegnati a suonarsele di santa ragione. Pur ridotto a un giocattolone per bambini, il film funziona piuttosto bene e abbozza persino un timido intento morale nel portare in scena il conflitto tra natura (Kong) e atomica (Godzilla), l’esito del quale - come sottolineato dal titolo italiano - vedrà la prima prevalere.
Cinque anni più tardi è la volta di King Kong - Il gigante della foresta (1967), ennesima produzione di stampo farsesco che racconta, sempre per mano di Ishiro Honda, la ribellione di Kong al rinnovato tentativo di sfruttamento da parte degli uomini. Curiosa l’introduzione di Mechani-Kong, clone robotico del gigantesco gorillone creato da un folle scienziato per estrarre preziosi minerali radioattivi. La furia incontrollabile del Re delle scimmie varrà a spazzare via anche questa nuova, sconsiderata minaccia artificiale.
Dopo la parentesi nipponica, Kong torna in America reinserendosi a pieno titolo nella logica dei kolossal hollywoodiani: sostenuto da ingenti finanziamenti produttivi, nel 1976 esce King Kong di John Guillermin, remake che ottiene ottimi incassi ma di fatto nulla aggiunge all’immaginario della serie, limitandosi a compiere una rivisitazione piuttosto fine a se stessa. Degni di nota, comunque, gli effetti speciali dell’italiano Carlo Rambaldi (italiano era anche il produttore, Dino De Laurentiis), il quale costruì per l’occasione un pupazzo alto quindici metri che gli valse il premio Oscar.
Esattamente dieci anni dopo gli stessi Guillermin, Rambaldi e De Laurentis realizzarono King Kong 2 (1986), sequel di modesta caratura che ebbe comunque il pregio di tentare di introdurre qualche novità narrativa: finito in coma (anziché ucciso) al termine del precedente capitolo, Kong viene operato e guarito, trova una compagna altrettanto colossale e assiste alla nascita del figlio, subito prima di crollare sotto il fuoco di un esercito che continua a considerarlo sempre e solo come una letale minaccia. Una mera favoletta, pur accolta con piacere dai patiti dell’iconico primate.
Venendo infine al nuovo millennio, Kong torna al cinema con due diverse incarnazioni, la prima diretta da Peter Jackson nel 2005, la seconda uscita nelle sale all’inizio del 2017 per la regia di Jordan Vogt-Roberts. Le due opere, anziché concorrenti, andrebbero considerate piuttosto come complementari.
Laddove, infatti, Jackson attinge a piene mani dalla fonte dell’episodio originale, riproponendone fedelmente personaggi, situazioni e soprattutto il pathos, Vogt-Roberts intende invece inaugurare un corso inedito per il franchise, rinverdendone l’epos alla luce di sviluppi futuri già annunciati.
Allo stesso modo, se il King Kong del 2005 appare splendidamente effigiato nella sua carica di sovversiva alterità all’umano (il che, paradossalmente, fa di questo “buon selvaggio” il personaggio più autentico del film, portatore di un messaggio etico che vede la purezza, la limpidezza, l’onestà invidiabili del suo comportamento fungere da contraltare alle meschinità, le contraddizioni, i tormenti degli uomini che gli danno la caccia), il protagonista del nuovo Kong: Skull Island si caratterizza principalmente sotto il profilo ferino e primordiale.
Due differenti interpretazioni, dunque, di un identico mito che si tiene costantemente in equilibrio fra tradizione e innovazione. Il risultato finale è che a distanza di ottant’anni, alla stregua di un’araba fenice che ogni volta muore per rinascere più forte, il ruggito di Kong continua a echeggiare sul grande schermo conservando intatta la possanza conturbante del proprio richiamo, per scaldare ancora una volta il cuore degli spettatori e scuoterne interiormente le coscienze.
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