Se è vero che ogni opera porta un suo messaggio, ce ne sono alcune che si prefiggono di non essere intrattenimento e altre che, pur gravitando in quell’orbita, cercano di spingersi più in profondità, provando a lanciare dei messaggi meno gridati, spingendoci a riflettere in maniera più diretta. Philip K. Dick è stato uno scrittore molto prolifico a cui solo sul finire della carriera (ma purtroppo soprattutto dopo la sua morte) è stata riconosciuta l’importanza della sua letteratura. Il motivo? L’essere “etichettato” come scrittore di fantascienza, motivo che in passato bastava per essere considerato di serie B. Eppure nei suoi romanzi la fantascienza era il contorno, il contesto in cui muoversi e in cui meglio sottolineare il vero liet motiv della sua scrittura: l’essere umano. E si, la sua fantascienza molte volte era la bugia per raccontare verità profonde. La serie Amazon Electric Dreams trasforma 10 dei suoi racconti in altrettanti episodi. Prima di lei, a fortune alterne, le sue opere hanno ispirato, tra gli altri, la pietra miliare Blade Runner e Minority Report. La serie nasce da una coproduzione tra Channel 4 e Sony, con l’ideazione di Ronald Moore (tra le altre cose creatore di Battlestar Galactica) e Michael Dinner. I diritti distributivi sono stati acquisiti da Amazon, che ne ha fatto nel 2017 uno dei progetti di punta per dare risalto alla sua piattaforma streaming Prime Video. Tra i produttori esecutivi compare anche la figlia di Dick, Isa Dick Hackett. I 10 episodi di cui è composta la serie vedono sceneggiatori, registi, attori e situazioni differenti. Le puntate, autoconclusive, rendono la serie più vicina a Black Mirror piuttosto che ad Altered Carbon. Cosa è reale? Una domanda che oggi rimanda a Matrix (che pure deve qualcosa alle opere di Dick) e che è da sempre elemento centrale nell’immaginario dello scrittore, dove il reale si sfalda in funzione del percepito dell’individuo. L’esaltazione delle sensazioni (anche attraverso la tecnologia) rende l’immaginario più reale del reale, che diventa a sua volta più lento e nebuloso, confuso e difficile da riconoscere. Perdita di identità, difficoltà nel decifrare la realtà: queste tematiche sono state trasposte nella serie in maniera efficace, e il trittico di episodi iniziale ne è una prova concreta. Risulta praticamente impossibile rimanere impassibili agli eventi narrati e alla loro potenza emotiva, trasmessa attraverso valori produttivi di primo piano e da attori capaci e in parte. Credere che la felicità possa essere un trucco, uno store che brucia risorse in funzione di bisogni da soddisfare ma ancora in divenire, affezionarsi a device e a voci che non conosciamo e che eppure diventano ogni giorno più familiari: tematiche oggi più attuali che mai (e forse troppo visionarie per il grande pubblico all’epoca dei racconti originali) e qui ben trasformate in materiale audiovisivo. Alti e bassi La produzione non va al risparmio e lo sforzo è ben visibile nonostante non tutti gli episodi risultino completamente riusciti. Un esempio? L’episodio 4, nonostante sia ben interpretato e veda tra i protagonisti Steve Buscemi, non riesce a trasmettere tutte le sfumature della storia perdendosi un po’ per strada. Fortunatamente nei 10 episodi la qualità media resta alta, con picchi in grado di toccare le tematiche e i sentimenti propri dei racconti. Quando si tessono le fila del discorso nelle batture finali degli episodi si sente talvolta la mancanza di un’autorialità più marcata in grado di sottolineare in maniera adeguata il nodo centrale dell’episodio. In ogni caso, quando tutti i tasselli vanno al loro posto, la narrazione arriva in maniera efficace al punto: ce ne si accorge soprattutto dal fatto che ai titoli di coda non si ha voglia di passare subito al prossimo episodio ma di riflettere su quanto appena visto: in epoca di binge watching – dove l’intrattenimento sembrerebbe il materiale per il prossimo racconto di Dick - non una cosa da tutti i giorni.