La prima, raggelante stagione della serie Netflix Making a Murderer su Steven Avery
Per più di un secolo la Settima Arte ci ha insegnato che qualsiasi narrazione cinematografica, per quanto ancorata alla realtà, è studiata a tavolino per tenere desta l’attenzione dello spettatore. Personaggi, intrecci, colpi di scena vengono orchestrati in sinergia da registi e sceneggiatori, senza lasciare alcun elemento al caso.
Eppure, di tanto in tanto, accade che la realtà riesca a superare di gran lunga la migliore delle trame. Vite straordinarie, concatenazioni di eventi degne di Agatha Christie, colpi di scena disarmanti che si spingono al limite dell’incredibile. Non accade spesso: storie del genere sono più uniche che rare, eppure quando vengono portate alla luce riescono a scuotere le nostre coscienze nel profondo, facendoci interrogare sul senso stesso del mondo (o della società) che ci circonda. La storia di Steven Avery è una di queste.
Chi è Steven Avery
Nel 1985, all’età di 23 anni, Steven Avery viene arrestato e condannato per lo stupro e il tentato omicidio di Penny Beerntsen, crimine per cui si è sempre dichiarato innocente. Nonostante un solido alibi, che lo collocava a 40 miglia dal luogo dello stupro, viene condannato a 32 anni di reclusione. Ne sconta 18, prima di essere scagionato dal ritrovamento di un pelo pubico che, attraverso un test del DNA, comprova la sua innocenza. Steven Avery torna quindi in libertà e, nonostante la condanna scontata ingiustamente, non ha rancori: è solo desideroso di recuperare il tempo perduto con i propri cari. Spronato dagli avvocati, nel 2003 intenta una causa civile da 36 milioni di dollari contro la Contea; cifra che verrà ridimensionata notevolmente finché Avery accetta il (ridicolo) compromesso di 400.000 dollari come risarcimento.
Poco prima di poter incassare i soldi però vi è una svolta inaspetatta: il 31 ottobre 2005 Steven viene nuovamente arrestato con l’accusa di aver assassinato Teresa Halbach, una fotografa scomparsa dopo essere stata nella sua proprietà per fotografare un veicolo da vendere. Anche questa volta Avery si dichiara innocente, ma il processo viene imbastito in fretta nonostante non ci siano reali prove a suo carico. Non all’inizio almeno.
Questo è solo l’incipit della vicenda. Il riassunto della prima, raggelante puntata della serie Netflix Making a Murderer dall’inequivocabile titolo Eighteen years lost. Fuori uno, restano nove episodi da circa 60 minuti che coprono un arco di 10 anni, ripercorrendo e analizzando minuziosamente tutte le fasi del processo dove – è proprio il caso di dirlo – nulla è come sembra.
Avery: un caso ancora aperto
Il 18 dicembre 2015 Netflix rilascia la docu-serie sulla propria piattaforma e in contemporanea rende fruibile su YouTube il primo episodio, cosa mai avvenuta per nessun altro programma del canale streaming. Senza alcun dubbio l’ennesima, geniale trovata di marketing del colosso americano, ma anche un modo per rendere nota questa vicenda cercando di farla giungere alle orecchie di quante più persone possibili.
Perché la storia della famiglia Avery merita davvero di essere ascoltata e compresa, al di là delle opinioni e delle conclusioni che ognuno di noi può trarne. Making a Murderer non è uno di quei programmi che lo spettatore subisce passivamente: guardarlo non significa seguire la scia di indizi che ci vengono spiattellati in faccia. Vuol dire immergersi in un mondo legale e giudiziario (quello statunitense) a noi sconosciuto. Mettere in dubbio ogni indizio, prova, confessione che ci viene mostrata. Interrogarsi di continuo sui “perchè”. E, soprattutto, trattandosi di un caso ancora aperto, non giunge a una conclusione univoca, ma sprona lo spettatore a costruirsi una propria opinione per poi lasciarlo in balia di sé stesso.
Non è The Jinx – La vita e le morti di Robert Dust, che nell’episodio finale, soddisfatti o tramortiti, offre comunque una conclusione; non è Evil Genius, che alla fine riesce a far quadrare tutti gli assurdi dettagli; non è nemmeno The Keepers, che tratta di una suora scomparsa da ormai 50 anni, della quale sopravvive oggi solo uno sbiadito ricordo.
Steven Avery è una persona ancora in vita, la cui battaglia legale non si è conclusa. E soprattutto Steven Avery avrebbe potuto essere uno qualsiasi di noi.
Un fenomeno mediatico
Le due autrici e registe del documentario, Laura Ricciardi e Moira Demos, si sono conosciute quando ancora erano studenti di cinema alla Columbia University. Le due leggono per la prima volta della vicenda di Steven Avery sul New York Times nel 2005, in un articolo che parlava della sua scarcerazione e del suo recente nuovo arresto, pensando subito che avrebbe potuto essere una storia molto interessante per un documentario. Quello che sono riuscite a mettere insieme in 10 anni di lavoro, collettando filmati di repertorio e interviste a parenti, amici e avvocati, oltre a essere un ritratto della vita di Steven, è anche una forte denuncia al sistema giudiziario americano, ritenuto infallibile.
Attraverso le vicende narrate vengono esposti diversi punti oscuri della vicenda, sottili linee d’ombra che demarcano un territorio ambiguo e inesplorato. Vengono portati all’attenzione del pubblico temi come l’abuso di potere delle autorità, la manipolazione dei media, le falle della giustizia e la controversa applicazione di alcune leggi. Tutto ciò senza tralasciare il ritratto del vero cuore pulsante degli Stati Uniti, quello lontano dalle grandi città scintillanti e ricche di promesse.
Un’America fatta di infinite distese dei campi del Winsconsin, di centri abitati rarefatti, di persone la cui normalità è vivere in roulotte, ai margini della società, senza particolari ambizioni. Gente che normalmente verrebbe ignorata dal sistema, ma che per uno strano gioco del destino si ritrova a dover lottare contro di esso solo per poter tornare alla loro ordinaria, anonima esistenza.