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Billie (2019): dal TFF38 la recensione del documentario su Billie Holiday

28/11/2020 10:54

Valentina Pettinato

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Billie (2019): dal TFF38 la recensione del documentario su Billie Holiday

Un controverso documentario che finalmente vede la luce dalle testimonianze raccolte fino alla fine degli anni '60 dalla giornalista Linda Lipnack Kuehl

Presentato Fuori Concorso al 38mo Torino Film Festival il docufilm Billie, di James Erskine, è un controverso lavoro che finalmente vede la luce dalle testimonianze raccolte fino alla fine degli anni '60 dalla giornalista Linda Lipnack Kuehl. Linda decide di scrivere la biografia definitiva su Billie Holiday, icona jazz e una delle più grandi voci di tutti i tempi, artista black in un mondo di bianchi. Il libro però non viene mai pubblicato, nonostante la mole di materiale raccolto dalla giornalista e il duro lavoro di ricerca, che ha occupato tutta la sua vita. 

 

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A distanza di cinque decenni, il regista James Erskine ha avuto accesso alle 200 ore di interviste inedite, grazie alle quali ha costruito il ritratto di una leggenda americana catturandone la profondità e la complessità.

Con delle premesse simili, questo documentario sugli aspetti più intimi di una delle donne più amate e discusse della storia della musica non può che essere un racconto coinvolgente e irriverente.

 

In un certo senso scardina l’iconicità della sua protagonista per restituircela per quello che era: una donna ribelle e scandalosa allo stesso tempo. Il film attinge totalmente al lavoro della giornalista e, dal punto di vista della messa in scena, è un mix di testimonianze audio e immagini di repertorio, in cui si ricostruisce la vita di Lady Day dalla sua nascita fino alla sua morte. Le testimonianze includono grandi nomi della musica (Charles Mingus, Tony Bennett, Sylvia Syms, Count Basie), parenti, amici e amanti di Billie, avvocati, papponi e persino gli agenti dell'FBI che l’avevano arrestata.

Ma non solo. Perché in realtà il documentario, seppur incentrato sulla sua protagonista, ha una sotto-pista narrativa legata alla storia di Linda Lipnack Kuehl, legata a doppio filo a Holiday da un’ossessione che probabilmente ha influito sulle circostanze della sua scomparsa. Se da un lato seguiamo la storia di questa ragazza nata a Filadelfia, cresciuta dalla madre a suon di musica e diffidenza cronica per gli uomini (il padre, musicista, le aveva abbandonate), dall’altro lato scopriamo le fragilità di Linda.

 

L’autrice delle ricostruzioni storiche si sentiva legata a Billie per dolori e passioni comuni e voleva ridare voce autentica a una donna che nella sua vita era stata spesso censurata, senza aver mai avuto occasione di raccontare in maniera sincera la propria triste storia.

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Triste come la sua di vita, che la condusse il 6 febbraio 1978, a quello che fu catalogato dalla polizia dell’epoca come un suicidio, mentre la sua famiglia credeva diversamente. Kuehl dedica gli ultimi otto anni della sua vita a scrivere i capitoli più controversi e difficili di Billie Holiday quando, sul finire delle ricerche precipita, in circostanze misteriose, da un balcone del suo hotel a Washington DC. I nastri di Kuehl vengono insabbiati fino a quando, finalmente, diventano materiale filmico. Ecco che il documentario di James Erskine, indipendentemente dalle scelte stilistiche e narrative, è materiale scottante. Billie parte dal racconto dell’icona senza separarsi mai dall’autrice della ricostruzione biografica. 

Holiday è cresciuta a Baltimora, povera e sola; dopo essersi trasferita ad Harlem, inizia a cantare in piccoli nightclub, dove alla fine viene “scoperta” dal produttore John Hammond. Il racconto non trascura i particolari più incendiari della vita dell’artista: la prostituzione, le droghe, l’amore per le ragazze, l’obbligo di cantare il blues “più adatto ai neri”. Il documentario racconta la segregazione razziale e le difficoltà, per Billie, nell’essere giudicata da critici bianchi.

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All'inizio degli anni Quaranta, lavora con Basie e Artie Shaw e incide la sua canzone più dolorosa, Strange Fruit, il primo vero grido di battaglia contro una feroce storia di linciaggio razziale in America. Tra le difficoltà di essere l’unica cantante nera in una band itinerante di musicisti bianchi, l’umiliazione di non essere servita dai camerieri e dovere dormire nei pullman, gli albori dei movimenti per i diritti civili, Billie prende a cuore - attraverso la musica - queste tematiche e diviene bersaglio facile dell’FBI anche per le sue dipendenze. Arresti, rapporti tossici con gli uomini della sua vita, la prima tournée in Europa; fino al suo declino fisico, il desiderio di un figlio, la morte. C’è tanto materiale in questo documentario: ma, nonostante questo, Linda non lo riteneva sufficiente per chiudere il suo libro, tanto da ricevere minacce da persone che provenivano dal mondo che lei stava scandagliando senza sosta.

Erskine, attraverso questo lavoro, racconta due donne nel momento in cui le loro vite si assomigliano di più. Il film si fonda quasi interamente delle registrazioni della Kuehl e su bozze di pagine scritte da lei stessa; ci sono filmati delle performance e qualche particolare della vita dell’autrice: eppure il documentario, nonostante sia sin dal prologo un’opera potente, rimane forse un’occasione sprecata. E aggiunge poco al materiale iniziale, forse per rispettare le intenzioni originali dell’autrice.

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Come insegna Holiday, «se accenni a piangere, ma non lo fai del tutto, il pubblico piangerà». Seguendo questa massima, Billie, anche se accenna a possibili scenari più profondi e al legame tra le due donne senza approfondirlo come meriterebbe, è un film che, comunque, piange.


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Genere: documentario

Titolo originale: Billie

Paese, Anno: Regno Unito, 2019
Regia: James Erskine

Sceneggiatura: James Erskine

Montaggio: Avdhesh Mohla

Colonna sonora: Hans Mullens

Durata: 96'

 

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