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Killer Joe

25/09/2011 11:00

Lorenzo Pedrazzi

Recensione Film,

Killer Joe

Ritratto sardonico e disincantato dei legami familiari

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Quando scopre che la madre ha rubato la sua scorta di droga, Chris, uno spacciatore di 22 anni, deve racimolare seimila dollari in fretta, o sarà un uomo morto. Disperato, va a trovare suo padre Ansel al campeggio delle roulotte, e gli espone il suo piano. La madre di Chris, odiata da tutti, ha un’assicurazione sulla vita che coprirebbe il suo debito e li farebbe entrambi ricchi. Il problema è che la madre di Chris è fin troppo viva. Ed è qui che entra in scena il poliziotto “Killer” Joe Cooper, un assassino prezzolato con maniere da gentiluomo degli Stati del Sud, disponibile a risolvere la faccenda, ma solo dietro pagamento anticipato di una somma che Chris e Ansel non hanno. Sul punto di piantarli in asso, Joe nota Dottie, l’innocente sorellina di Chris, e fa un’offerta al ragazzo: terrà con sé Dottie come caparra sessuale finché non avranno ottenuto il denaro e pagato il compenso...


Che gran classe quella di William Friedkin, regista tostissimo che non ha mai smesso di fare buon cinema: anche Killer Joe, giunto cinque anni dopo il disturbante Bug (da recuperare, se non l'avete visto), conferma il talento di un veterano che non è mai invecchiato, ma sa ancora raccontare storie con sguardo affilato e mano sicura. Merito anche dell'opera teatrale di Tracy Letts, estremamente cinematografica in termini di storia e caratterizzazione dei protagonisti, al punto da rendere praticamente obbligato il passaggio sul grande schermo. Ambientato nella consueta periferia suburbana - in questo caso texana - fra piccoli criminali e cittadini di serie B, Killer Joe dipinge un ritratto sardonico e chiaramente disincantato dei legami familiari (al centro di moltissima retorica statunitense e soprattutto hollywoodiana), decostruendoli cinicamente attraverso le logiche dello humour nero, qui riproposte con gusto e senso del ritmo. Gli scatti improvvisi di violenza inusitata, così simili alle dinamiche del pulp, non toccano le corde dell'empatia - né quelle del disgusto - grazie all'abile lavoro di Friedkin e della Letts, che spogliano la rappresentazione di qualunque patina morale e rendono accettabili anche le forme più assurde di prevaricazione, compresa la scena cult del chicken job (la cui descrizione è meglio evitare, sia per senso del pudore sia per non rovinare la sorpresa). Così, la fruizione del film risulta assolutamente libera: libera di abbracciare la follia della storia e dei personaggi - soprattutto il Joe di Matthew McConaughey, forse il ruolo migliore della sua carriera - senza preoccupazioni di carattere etico, ma abbandonandosi a un divertimento bizzarro e parossistico, mai banale.


Un film che lo stesso Friedkin ha definito come una sorta di Cenerentola dove il Principe Azzurro è un killer a pagamento, e l'ironia del finale - culmine di una sequenza da antologia - non fa che esaltare i pregi di questa insolita parabola fiabesca.


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