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This must be the place

25/10/2011 11:00

Valerio Ferri

Recensione Film, Paolo Sorrentino,

This must be the place

Cheyenne (Sean Penn) è un ex musicista rock che ha abbandonato le scene da molti anni...

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Cheyenne (Sean Penn) è un ex musicista rock che ha abbandonato le scene da molti anni. Vive nella sua lussuosa tenuta con la compagna di una vita, girovagando per Dublino col suo bizzarro trolley e con un look alternativo che sintetizza una vita spesa tra vizi ed eccessi. Stanco per una vita spericolata e depresso a causa di estranei e conoscenti che lo considerano un cattivo esempio o un mito da seguire, i suoi giorni trascorrono tra il tentativo di far innamorare due ragazzi tristi, ma molto diversi fra loro, e la compagnia di una madre in ansia per la fuga improvvisa del figlio. Questioni in sospeso col passato ripiombano però con prepotenza nella sua vita, offrendogli un’occasione inaspettata per allontanare la profonda noia esistenziale.


L’accoppiata italoamericana formata da Sean Penn e dal regista Paolo Sorrentino prometteva fuochi d’artificio, pregustando in parte il ritorno di un binomio tra due tipi di cinema agli antipodi ma meravigliosamente complementari, come la tradizione conferma. L’estetica ampollosa a stelle e strisce e i ritmi introspettivi del cinema nostrano nel suo periodo più fulgido hanno dimostrato di saper andare a braccetto molto volentieri. Anche le carriere dei due esponenti più rappresentativi, nel film sembrano per certi versi convergere in uno stile dalle tinte più fredde e silenziose, quasi a sancire una collaborazione che pareva imprescindibile. Dietro ad un soggetto piuttosto lineare e snello si nasconde così la continua ricerca di nuovi significati latenti, attraverso una forma anticonvenzionale che sembra farsi beffe delle consuete metodologie narrative, sperimentando una tipologia di innovazione che nella sua modernità ha la tipica presunzione di voler essere solo radicale.


Dopo una quarantina di minuti in cui emerge l’eccentrica personalità del protagonista e del contesto che lo attornia, la carne messa al fuoco appare più che abbondante, tanto da stimolare una cospicua curiosità non solo per osservare lo sviluppo dei fatti, ma per comprendere cosa voglia comunicare (e quale sia) il messaggio del regista. Di punto in bianco il passato sostituisce del tutto il presente e ci si ritrova catapultati in un viaggio on the road che dovrebbe far luce sulla complessa maschera disegnata da Sorrentino. Il ritratto che ne viene fuori è però piuttosto pastrocchiato; persino spudorato nel voler rendere consapevole lo spettatore solo tramite dei velati riferimenti che cercano di trasmettere tutto artisticamente fra le righe. Persino Penn diventa a tratti nauseante con le sue fulminee perle di saggezza e un’interpretazione spesso richiamante l’eterno bambino di Mi chiamo Sam. Sonorità, trucco e fotografia sicuramente all’altezza fanno da cornice a una pellicola forse troppo ambiziosa, in cui lampi di brillante originalità vengono offuscati da una matrice eccessivamente fiacca. Si fa fatica a filtrare i pensieri del regista, ma stavolta non si tratta di un’opera di nicchia.


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