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Blue Jasmine

27/11/2013 12:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

Blue Jasmine

Woody Allen ritorna con un nuovo racconto al femminile, mettendo in scena un vero dramma borghese

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"Blue Moon, you saw me standing alone", canta una celebre canzone. E così, sola e in piedi ci appare Jasmine, nuovo personaggio femminile attorno al quale ruota l’ultimo lavoro di Woody Allen, tornato a girare oltreoceano dopo il discusso periodo europeo. Tra New York e San Francisco, il regista dipinge un affresco in chiaro-scuro delle idiosincrasie di queste due grandi dimensioni, attraverso il dramma della protagonista. Con Blue Jasmine Allen ritorna con un nuovo racconto al femminile, mettendo in scena un dramma borghese attorno al complesso personaggio interpretato dalla superlativa Cate Blanchett: una donna persa, alla deriva, sedotta e abbandonata non solo dagli affetti ma anche dal lusso di una classe sociale alla quale non appartiene più.


Jasmine è una newyorkese raffinata ed elegante che vive al sicuro in un mondo perfetto fatto di ricevimenti, aperitivi in piscina, vestiti alla moda e serate mondane. Nonostante la sua classe innata Jasmine non proviene da una famiglia benestante: il suo status sociale è acquisito grazie al matrimonio con un ricco magnate della finanza, Hal (Alec Baldwin). Ma un matrimonio fondato sull’apparire ha fondamenta poco solide: così la donna si trova a dover affrontare le conseguenze del crollo della propria vita coniugale ritornando al proprio status sociale di partenza che non ha mai accettato, trovando rifugio dalla sorella Ginger (Sally Hawkins) che vive una vita modesta a San Francisco. In balia della propria instabilità psicologica, tra un cocktail di psicofarmaci, un vodka-lemon e fantasmi del passato che ricompaiono, Jasmine tenta di uscire dal tunnel con tutte le sue forze. Disperata e priva di risorse prova a crearsi con mezzi propri una nuova vita, senza successo.


Tra le mura domestiche il regista mostra tutta la sua disinvoltura nel raccontare il default economico-sentimentale di una delle sue tante eroine femminili, che riporta un po’ di sano classismo alla cinematografia del regista, al quale dopo Scarlett Johansson e Penelope Cruz eravamo disabituati. Così dopo il filone europeo finalmente si ritorna alle origini: una pellicola con un unico personaggio centrale e tanti irriverenti comprimari, che si dipana in due dimensioni, una reale, a San Francisco, e una passata, a New York, attraverso ovattati flashback. Interessanti alcune proposte registiche, come la scelta di rappresentare la perdita di senno della protagonista attraverso questi altalenanti passaggi tra status sociali. Migrando da una dimensione di ricchezza a una dimensione di povertà economica Jasmine – o Jeanette, vero nome abbandonato per uno più esotico – sprofonda nell’abisso della propria depressione tra le mura domestiche - per quanto squallide - della casa della sua sorellastra Ginger, dalla quale si afferma totalmente diversa. Come una clessidra, questo film si capovolge più volte: c’è il tempo newyorkese con i suoi fasti, la sua apparenza, le sue splendide e patinate menzogne; San Francisco, con i suoi abitanti sempliciotti, le sue verità così ordinarie per una donna di fantasia. A capovolgerla continui sbalzi temporali, ciclotimici come la psiche della protagonista, che vaga come un fantasma dai troppi – elegantissimi - scheletri nell’armadio che la assediano fino a farla dialogare da sola.


È indubbio che il film si regga totalmente sulla personalità della protagonista che monopolizza la scena. Una donna che tenta di emergere dall’abisso delle sue malinconie ma così lontana dalla vita che è costretta a condurre accanto alla sorella Ginger, cassiera di un supermercato che si accompagna sempre a uomini di dubbio gusto. Questa differenza già biologica (come tiene più volte a sottolineare visto che sono state entrambe adottate), trova supporto nello sforzo creativo di Jasmine ad inventarsi una nuova vita. Da bimba modello che sogna un principe azzurro, cresce e riesce a realizzare i propri desideri. Continua a inventarsi in questo mondo perfetto anche quando suo marito si rivela quello che è, un truffatore fedifrago. Jasmine vive costantemente su un palcoscenico, dove recita un personaggio. È per fuggire da quella platea - invitata prima ai suoi party, ma che dopo il tracollo della sua vita, giudica Jasmine con commiserazione - che decide persino di rifugiarsi in una San Francisco così ordinaria per le sue borse Vuitton e i suoi abiti bon-ton. Ma fuggendo il risultato non cambia: anche lontana dal suo ambiente sofisticato trova qualcuno pronto a giudicarla, in questa costante messa in scena di sé. La protagonista si crea una nuova identità: prima più umana, provando a diventare un’impiegata modello che studia di notte per imparare come funziona il computer. Si finge anche arredatrice di interni, e riesce persino ad ammaliare un interessante diplomatico. Ma la finzione che permea la sua vita continua a scoppiare per aria, come bolle di sapone. E tutto ciò che resta è uno sguardo perduto nel vuoto, una solitudine e un dolore interiore che alla fine si rivolge con imbarazzo agli ultimi spettatori: il pubblico della sala cinematografica. Superiore alla prova di Allen è la sua capacità di scelta del cast: senza la Blanchett, la sceneggiatura sarebbe stata a tratti ridondante. Il merito va riconosciuto ad un’attrice ipnotica, capace di tenere col fiato sospeso anche quando il dramma, talmente duro, diventa insostenibile e imbarazzante.


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