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Sheep’s Clothing

06/01/2014 12:00

Davide Stanzione

Recensione Film,

Sheep’s Clothing

Un gruppo di sette amici si ritrova nella villa di proprietà di una di essi...

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Un gruppo di sette amici si ritrova nella villa di proprietà di una di essi. È un’occasione per rivedersi e rapportarsi con il ricordo di un passato che non ha esaurito la sua influenza sul presente e le ombre di un avvenire incerto, ancora da chiarirsi. La giovialità, però, è assoluta, trasuda gioventù da ogni poro e sopprime le nubi col vitalismo dell’età, con l’energia dell’incoscienza. La freschezza di questa banda di amici brasiliani lascia che il tempo in quella casa scorra accelerato, dimentico del resto. Si fuma, si decanta Kafka, tutto sembra volgersi al meglio contro tutto e tutti, alla larga da ogni scetticismo generazionale. In quello spazio isolato di mondo la bellezza naturale dell’ambiente circostante e la serenità crea un microcosmo di pace e splendore che nulla pare capace di intaccare. Tanto che decidono di sotterrare i loro desideri per il futuro, col vincolo di ritrovarsi dieci anni dopo, nel 2002, per constatare quanti di quegli auspici si saranno poi effettivamente verificati. Peccato però che le rosee promesse non avranno il seguito sperato. A distanza di anni infatti tutto si rivelerà diverso, compromesso forse definitivamente. Uno dei più brillanti, Rafa, aspirante scrittore e pieno di vita, è stato stroncato da un tragico incidente stradale che ha spazzato via i suoi anni migliori e ancora in larga parte inesplorati. Ma anche il resto della compagnia, riunito intorno alla gravosa assenza dovuta alla perdita dell’amico, non se la passa bene: le acredini cominciano così a riaffiorare in un climax di frustrazione e rabbia che metterà la comitiva di amici spalle al muro, costringendoli a fare drammaticamente i conti con se stessi per la prima volta.


I registi Paulo e Pedro Morelli, rispettivamente padre e figlio, guardano chiaramente a Il grande freddo di Lawrence Kasdan, dove a lasciarci le penne era il personaggio di Kevin Costner, generando in chi era rimasto il medesimo caos. Da lì, un analogo crocevia di problemi che si riaffacciavano in superficie e di conflitti latenti, volontà e tensioni pronti a riesplodere. Il risultato però è anni luce lontano da quel film divenuto un classico del genere e ispirato a sua volta a un’opera se possibile ancora più fine per scrittura e grazia psicologica, ovvero Return of the Secaucus 7, diretta da John Sayles, uno degli alfieri più importanti e fondamentali ma anche in assoluto più misconosciuti del cinema americano indipendente (quello di Stella Solitaria, per intenderci). Questa modesta rivisitazione dei Morelli di quel modello aureo di film corale lascia a desiderare sotto moltissimi aspetti: i personaggi sono raffazzonati e prevedibili, non si scende mai in profondità nel sondare l’elettricità che monta tra di loro e tutto rimane maledettamente a galla, ristagnando e appesantendo un’operetta di per sé priva di reali ragioni d’interesse. Perfino le dinamiche interne, dall’incidente imbellettato peggio che in una fiction nostrana a ciò che ne consegue appaiono fin troppo meccaniche e telefonate per risultare anche solo lontanamente credibili. In una struttura così esile in cui è la grossolanità a dominare imperante la scena non ci sono margini neanche per affezionarsi ai personaggi o per interessarsi alle loro paturnie. Dal punto di vista fisico gli attori sembrano solo gli stanchi e bolliti volti seriali di una telenovela qualunque, tutti uguali e tutti rigorosamente bellocci, senza una fragilità e una debolezza autentiche in grado di smuovere la curiosità e solleticare un accenno di coinvolgimento. Una parentesi del Festival del Film di Roma del tutto dimenticabile, che se era stata accolta nella competizione ufficiale a rappresentanza di una fetta di mondo e di una cinematografia in levare, fallisce miseramente nell’obiettivo di farle da portabandiera.


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