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I segreti di Osage County

23/01/2014 12:00

Lorenzo Pedrazzi

Recensione Film,

I segreti di Osage County

Le pianure sconfinate dell’Oklaoma, bruciate da un sole che toglie il fiato, sono lo sfondo per un corrosivo intreccio familiare che il drammaturgo Tracy Letts

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Le pianure sconfinate dell’Oklaoma, bruciate da un sole che toglie il fiato, sono lo sfondo per un corrosivo intreccio familiare che il drammaturgo Tracy Letts imbastisce con quel gusto cinico e sarcastico già visto all’opera in Bugs e Killer Joe, i due memorabili film di William Friedkin scritti proprio da Letts a partire dagli omonimi testi teatrali. Più convenzionale nel soggetto e nel suo sistema di personaggi, I segreti di Osage County mette a confronto due generazioni che si ritrovano a Pawhuska, nella grande casa di famiglia, in seguito alla scomparsa del patriarca Beverly Weston (Sam Shepard), anziano poeta alcolizzato che viveva insieme alla moglie Violet (Meryl Streep), affetta da un cancro alla gola e dipendente da numerosi narcotici. L’arrivo delle tre figlie (Julia Roberts, Juliette Lewis e Julianne Nicholson) genera nuovi rancori e dissotterra antichi conflitti, ulteriormente esacerbati dalla girandola di parenti – di sangue o acquisiti – che affolla le stanze della residenza dei Weston.


L’impostazione di base ha origini cecoviane: una grande magione, lontana dai centri abitati, concentra in sé i tormenti di una famiglia allargata, i cui membri sono tutti mediamente insoddisfatti, seppure ognuno a modo proprio, e ricorrono a svariate forme di dipendenza per alleviare le rispettive nevrosi quotidiane. Letts, però, contamina il tessuto familiare con uno sguardo caustico e disincantato che si riflette in primo luogo sui dialoghi schietti, ruvidi, antiretorici, affidati in particolare al personaggio di Meryl Streep, perennemente sopra le righe (ma è il copione a richiederlo) e capace di traslare con disinvoltura dal dramma all’ironia, dall’autocommiserazione al dileggio, con una lucidità di pensiero che trascende l’influenza delle droghe. Attraverso di lei scorre un retaggio femminile velenoso che si nutre di accuse reciproche e devianze affettive, nell’assoluta incapacità di stabilire un legame solidale tra madri e figlie, o tantomeno fra sorelle. C’è una tensione costante negli scambi verbali, una sottile traccia di acredine che può sempre stravolgere il tono della conversazione, com’è evidente anche nella lunga ed emblematica sequenza della cena, la più riuscita del film per la sua commistione di comicità e tragedia: tutti i personaggi sono riuniti a tavola, e i dialoghi apparentemente casuali, o di circostanza, accrescono la loro natura conflittuale fino a un’esplosione fisica che sfoga tutto il rancore accumulato in precedenza, e che naturalmente si coagula nei corpi e negli sguardi delle due contendenti principali, la matriarca Violet e la figlia maggiore Barbara, ritratta da Julia Roberts con un misto di sarcasmo e frustrazione che si fa specchio della personalità materna.


Il solido meccanismo costruito da Letts perde consistenza solo quando, tra storie di incesti e tradimenti più o meno segreti, cede alle tentazioni del melodramma puro, non così necessario nell’economia di una trama che si regge sulle fondamenta del cinismo e della disillusione. Ed effettivamente il drammaturgo, alla fine, non le tradisce: seppur lievemente ammorbidito rispetto alla versione teatrale, l’epilogo non prevede nessuna riconciliazione, e i frammenti della famiglia Weston sembrano destinati ad allontanarsi ancora di più.


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