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Jimmy P.

10/04/2014 10:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

Jimmy P.

Montana, 1949...

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Montana, 1949. Jimmy Picard (Benicio Del Toro), nativo americano reduce dalla Seconda Guerra Mondiale, vive e lavora nel ranch della sorella ma, traumatizzato dalle esperienze belliche, soffre di disturbi che la medicina tradizionale non riesce a spiegarsi. Preoccupata, la donna decide quindi di rivolgersi ad un centro specializzato nella cura dei veterani, il Winter Hospital di Topeka, nel Kansas, dove i medici, perplessi dal caso di Jimmy, si convincono a consultare Georges Devereux (Mathieu Amalric), antropologo europeo appassionato di etnologia. Superate le prime ostilità, Jimmy inizierà la terapia suggerita da George che presto si trasformerà in un’esperienza umana indimenticabile.


A cinque anni di distanza dal delicato Racconto di Natale, Arnaud Desplechin si discosta per la prima volta dal suo personalissimo stile - sentimentale e raccolto - per dirigere, in occasione della sua prima pellicola statunitense, una trama di complesso tema psicoanalitico. Fedelmente tratto da Reality and Dream - Psychotherapy of a Plains Indian, autobiografico romanzo del 1951 di Georges Devereux, psichiatra ed etnologo franco-ungherese, Jimmy P. racconta la vera storia dell’itinerario terapeutico e dell’amicizia fra James Picard, nativo americano sospetto di schizofrenia, e lo stesso Devereux.


Pur rendendo conto delle enormi difficoltà che un simile soggetto sottopone ad un cineasta, l’originale tentativo di Desplechin di allontanarsi dalle storie passate ed esplorare un territorio nuovo, provando a mettere su schermo i confusi appunti scientifici di Devereux e fondendoli con un’ambientazione avventurosa nelle terre occidentali, non si può dire sia del tutto riuscito. Dopo un contestualizzante inizio quasi western, meno interessante ma di certo più movimentato dello svolgersi, il film di Desplechin vira bruscamente verso uno stile estremamente dialogato fatto di sedute di terapia, lunghi dialoghi e vaneggianti (e irrisolti) sogni. In essi, prendono forma troppo lentamente i personaggi di Jimmy, interpretato con classe da Benicio Del Toro, e di Georges, l'attore Mathieu Amalric, due prove d’attore di grande charme che pure non bastano a movimentare un film che troppo presto perde sia il ritmo sia l’originalità necessari per sostenere un genere tanto composito. Se infatti pellicole come The Master di Anderson o A Dangerous Method di Cronenberg erano state in grado – con esiti eccezionali la prima e meno convincenti la seconda – di rendere conto della difficoltà e delle ombre del magnetico rapporto fra psicanalista e paziente, la pellicola di Arnaud Desplechin invece di provare a risolvere il rompicapo offerto dalla trama originale di Devereux, aggiunge ad essa ulteriori argomenti di complessità, come la riflessione sui “popoli esuli” che mette a confronto il pellerossa Jimmy con l’ebreo George. Un’interpretazione forzatamente europea di un tema, quello dei nativi, tutto americano: una scelta che non aiuta lo spettatore a comprendere ma contribuisce invece a confondere le acque. Laddove in passato il regista francese aveva chiaramente mostrato la propria visione poetica, legata al tema del ricordo e della privazione, in Jimmy P. – peccando forse di troppo coraggio - si limita ad accennare questo motivo al fianco di mille altri, sfiorati ma mai sviscerati. Il risultato è una complicata pellicola che mostra, del tema che affronta, tutta la complessità e nessun fascino.


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