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Le mani sulla città

17/02/2015 12:00

Giulia Colella

Recensione Film,

Le mani sulla città

Edoardo Nottola (Rod Steiger) è un imprenditore edile e un ambizioso politico: nella Napoli degli anni Sessanta una condizione davvero troppo fortuita per esser

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Edoardo Nottola (Rod Steiger) è un imprenditore edile e un ambizioso politico: nella Napoli degli anni Sessanta una condizione davvero troppo fortuita per essere casuale. In pieno Boom economico sono infatti i favori e gli accordi sottobanco a dominare e la città è solo una delle tante proprietà da amministrare, da rendere economicamente redditizia. Così, quando se ne presenta l'occasione, Nottola decide di costruire tanto e male su un terreno agricolo dal crescente valore di mercato. Lo scopo è naturalmente guadagnare denaro e farlo girare senza fine in una spirale di malcostume che schiaccia letteralmente sempre i più deboli, falciandone anche le vite se necessario.


Lo spettatore ha tutto il diritto di stupirsi quando la regista americana Kathryn Bigelow gira un film con una sceneggiatura tanto realistica da sembrare quasi un'inchiesta di giornalismo che sfrutta informazioni riservate del Pentagono, come avviene nello scomodo Zero Dark Thirty del 2012, ma solo a condizione di rammentare da dove provenga quel tipo di "cinema verità". Nessun appassionato della Settima Arte dovrebbe scordare che Le mani sulla città è una pellicola del 1963 che, ancora oggi, lascia una pesante eredità ai cineasti moderni e anche e soprattutto ai cittadini italiani. Cercare di capire il cinema di Francesco Rosi significa, oggi come ieri, diventare infatti necessariamente consapevoli della società contemporanea e dei meccanismi perversi che la governano. Le mani sulla città potrebbe tranquillamente riferirsi all’attualità - basta leggere una qualsiasi prima pagina di qualunque giornale di un giorno a caso per capirlo - ed è questo che dovrebbe indignare e sconvolgere. In parte l’obiettivo è sicuramente centrato, ma dall’altra non è possibile scordare la scena dei funzionari che mostrano convinti le loro mani pulite, precedendo di parecchi anni la notissima inchiesta che deve con ogni probabilità il suo nome proprio a questa specifica immagine del film. L’intento di Rosi non è perciò circoscritto alla documentazione della realtà, ma si estende verso la ricerca dell’origine di quel male che incombe sulla città come uno spettro.


È sempre una profonda consapevolezza a guidare la macchina da presa del regista napoletano verso quelle riprese aeree che aprono e chiudono l’opera, recintando la sua città dentro la stagnante palude del malaffare. L’impegno civile fa dell'arte un piedistallo dal quale è possibile aiutare, con coscienza, onestà e umiltà, la società a riflettere su se stessa. Questo era il cinema negli anni Sessanta, apprezzato ovunque nel mondo per la verosimiglianza della rappresentazione e per la sua perspicacia. La straordinaria capacità di autori come Rosi, Elio Petri o Pietro Germi è stata quella di raccogliere l’eredità del Neorealismo - che in quel periodo aveva esaurito già da tempo la sua spinta vitale - per traghettarla dentro quella modernità che necessita della denuncia propositiva per essere fertile. Con rammarico osserviamo quanto la ragnatela del compromesso ci stia ancora soffocando, mentre il discorso di Nottola a De Vita ci risuona nell’orecchio come tragicamente già sentito. Come ammise Mario Monicelli nel 1977, ponendo fine all’esperienza della cosiddetta Commedia all’Italiana, il cinema ha tendenzialmente fallito nel suo tentativo di renderci cittadini migliori. Rimane almeno la consolazione che esso abbia comunque saputo - e sa - creare grandissimi cineasti nel mondo. Per il resto finché c’è vita c’è speranza.


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