Jack e Ma vivono in un piccolo posto tutto loro: è "stanza", una topaia di una manciata di metri quadri che nei loro giochi è il castello più bello del mondo. Stretti ancor più da un rapporto d’amore simbiotico, madre e figlio passano le giornate crescendo insieme, fantasticando su oggetti, persone, pianeti. In realtà i due sono sequestrati da anni in un capanno. Uno non conosce l’esistenza del mondo esterno, l’altra lo sta dimenticando. Presentato alla 10ma Festa del Film di Roma, Room di Lenny Abrahamson è una pellicola tratta dal romanzo omonimo di Emma Donoghue, qui anche in veste di sceneggiatrice. Il film è un lavoro interessante non solo per come affronta un materiale rischiosissimo da trasporre cinematograficamente, ma soprattutto per le scelte stilistiche e per la costruzione scenica. La pellicola ha una struttura per vasi comunicanti, in cui la bipartizione narrativa reclusione/post reclusione è immersa in un ambiente ancora più ampio: il rapporto madre-figlio. La prima parte si svolge nella stanza in cui sono rinchiusi Joe (Brie Larson) e il figlio di cinque anni Jack (Jacob Tremblay), avuto dall’uomo che l’ha rapita sette anni prima e che li tiene sottochiave in questo posto blindato. Qui ha luogo la finzione, necessaria per espletare un bisogno: inventare un mondo che possa sostituirsi a quello reale, in cui giocare a un rapporto madre-figlio, proprio come in una casa di bambole. Una casa in cui vivono "Porta", "Lavandino", "Armadio". Una casa in cui c’è un giorno speciale dedicato a un premio, la domenica. In cui non si butta via niente, come se gli oggetti - persino il sacchetto dell’immondizia - potessero contenere del potenziale magico da trasformare in qualcosa con cui popolare questo microcosmo immerso nel mondo. La seconda parte, meno poetica, si svolge all’esterno e riguarda il processo di "rinascita" delle due individualità. Joe e Jack, una volta all’esterno, hanno bisogno di essere seguiti in un percorso di socializzazione che li aiuti a superare il trauma subito e a riappropriarsi persino della luce. Il film di Abrahamson riesce a far fluire perfettamente i tanti elementi, in un crescendo dimensionale che va dal piccolo all’enorme, inserendo omeopaticamente location leggermente più grandi, personaggi in più. Nella pellicola non mancano citazioni, da "Il conte di Montecristo" ad "Alice nel Paese delle meraviglie", optando per inserire delle componenti favolistiche che ripristinino la portata drammatica su un livello di maggiore sostenibilità, abdicando totalmente alla ricerca di una qualsivoglia forma di pietismo per la vicenda, puntando maggiormente su elementi onirici, su giochi di bimbo. Così la prima parte, totalizzante, in cui la reclusione di madre e figlio diventa nuovo linguaggio e unica identità, defluisce nella seconda in cui la scissione dei due co-protagonisti diventa un percorso di riappropriazione di una qualche forma autentica di umanità. Le scelte saranno drastiche, ma solo all’inizio. Acquisita una propria individualità i due potranno ritrovare il loro rapporto solo dopo aver conosciuto la giusta distanza, solo dopo aver imparato ad usare l’unità di misura del reale. E imparando che Stanza sta sotto a un cielo, che il cielo sta nel mondo. Un film che non cerca la commozione ma che, definitivamente, commuove.