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Man Down

10/12/2015 12:00

Erika Pomella

Recensione Film,

Man Down

Nel 2006 Dito Montiel, autore eclettico e versatile, debutta dietro la macchina da presa con il suo film più famoso, Guida per riconoscere i tuoi santi, dove gu

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Nel 2006 Dito Montiel, autore eclettico e versatile, debutta dietro la macchina da presa con il suo film più famoso, Guida per riconoscere i tuoi santi, dove guida un giovanissimo Shia LeBoeuf su un percorso di memoria e accettazione. Da allora sono trascorsi molti anni e altri quattro film, finché nel 2015 - in occasione della 72° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - non ha presentato Man Down, in cui ritrova l'attore lanciato da Transformers, di nuovo impelagato in una storia che mischia presente e passato, presenze e assenze.


Il mondo è desertico: le rovine delle grandi città giacciono, placide, sotto un cielo che sembra fatto d'acciaio. Due soldati tagliano il volto di questa asettica realtà. Sono Gabriel (Shia LeBoeuf) e il suo migliore amico Devin (Jai Courtney), che marciano alla ricerca della moglie (Kate Mara) e del figlio di Gabriel, persi chissà dove. L'incipit di Man Down, attraverso un montaggio che è il punto forte della pellicola, trascina lo spettatore in una storia tutta americana: la vicenda di due amici d'infanzia, di un padre, di un impegno militare giunto all'improvviso e delle cicatrici che la guerra lascia in tutti quelli che vi prendono parte, volontari o meno.


Raccontare maggiormente la trama di Man Down significherebbe fare un torto alla visione della pellicola: perché il film di Dito Montiel è uno di quelli che vanno scoperti poco a poco, in cui bisogna immergersi con anima e mente per far sì che tutti i pezzi del puzzle tornino al proprio posto. Man Down è un film che non può lasciare inermi, né indifferenti. A partire dal grande impatto visivo, dovuto a una fotografia eccezionale, che rimanda sia l'immagine di un'America ormai spettrale e vuota, sia la polverosa realtà dei soldati al fronte. Ma il più grande impatto, il film di Montiel lo crea a livello emotivo. Lo spettatore è quasi obbligato a infangarsi il cuore con le immagini sullo schermo, a soffrire insieme ai protagonisti. E non è tanto la guerra il teatro su cui si sviluppano le catene dell'empatia, quanto piuttosto la sotterranea quotidianità di un uomo spezzato, perseguitato da incubi e sensi di colpa. Un uomo, che non ha mai smesso di cercare i propri cari, per cui l'espressione “man down” - letteralmente, "uomo a terra" – ha il significato segreto di "ti voglio bene": come se amare qualcuno fosse, in effetti, un rendere le armi incondizionato, un inginocchiarsi grato ai piedi della persona più importante. Dito Montiel sceglie con intelligenza armi e protagonisti, che risplendono sullo schermo, insieme a lacrime copiose del pubblico in sala.


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