A distanza di quattro anni dall'indiscusso successo planetario di Pulp Fiction, nel 1998 fa la sua uscita sul grande schermo il terzo film di Quentin Tarantino, Jackie Brown. Il film va incontro a pareri piuttosto contrastanti, sia per quanto riguarda il pubblico sia per la critica e, malgrado le enormi attese, non si rivela per nulla un grande successo di botteghino; lo stesso Tarantino definisce la pellicola come “Una storia d’amore, realistica e vera”, spiazzando non poco i fan che avevano ancora negli occhi gli indimenticabili Mr. Blonde e soci, o gli irresistibili dialoghi fra Jules Winfield e Vincent Vega. Questa volta, infatti, il regista porta sullo schermo una storia più convenzionale, impregnata di riferimenti ai grandi classici del genere noir e in particolare alla blaxploitation degli anni ’70, scegliendo non a caso per il ruolo di protagonista una vera e propria icona sexy di quelle pellicole, l’ìndimenticata Pam Grier, ancora bellissima e carica di sensualità. La vicenda è tratta dal libro Rum Punch di Elmore Leonard, sulla base del quale Tarantino realizza una sceneggiatura solidissima, estremamente ingarbugliata e continuamente scandita da colpi di scena e false piste. L’intero intreccio narrativo ruota intorno alla protagonista, Jackie Brown, una hostess che per arrotondare lo stipendio si occupa di contrabbandare il denaro sporco di un trafficante d’armi dal grilletto facile, Ordell Robbie (interpretato dal solito impeccabile Samuel L. Jackson, ormai assunto ad attore feticcio di Tarantino). La situazione però si complica decisamente quando entrano in scena due agenti dell’FBI (tra cui spicca un convincente Michael Keaton), pronti a tutto pur di trascinare dietro le sbarre Ordell. A questo punto si instaurerà un meccanismo di doppio gioco che porterà lo spettatore in un vortice di emozioni, sparatorie e tradimenti, fino all’emozionante finale che metterà, finalmente, tutte le carte in tavola. Subito balza davanti agli occhi un dato evidente ed incontrovertibile: Jackie Brown prende visibilmente le distanze dai precedenti film del regista, sorprendendo inevitabilmente gli amanti dello stile tarantiniano. Questa volta si tratta infatti di una pellicola estremamente lineare – se si esclude l’unica sequenza dello scambio di borse, ripetuta tre volte e da tre punti di vista, con più di un riferimento al cinema di Brian De Palma – scandita da ritmi lenti e studiatissimi, che non fa mai utilizzo di flashback o altri artifici narrativi per manipolare la sequenza, come invece si era visto negli altri lavori. Anche i movimenti di macchina sono ridotti al minimo, le inquadrature sono più convenzionali e in generale si ha l’impressione che Tarantino abbia voluto girare un film decisamente più misurato rispetto agli eccessi del passato (e del futuro…), meno innovativo e considerevolmente più orientato verso i grandi classici. Banditi dunque effetti speciali e grandi esibizionismi, non c’è neppure traccia dell’ amata commistione di generi: si tratta piuttosto di una messa in scena decisamente semplice che punta tutto sulla sceneggiatura. Il risultato è un noir impeccabile, forte di un cast in gran forma – irresistibile l’interpretazione di Robert De Niro, nei panni di un delinquente di seconda tacca e tutt’altro che sveglio – scandito dai soliti splendidi dialoghi. Il tutto all’insegna di una esplicita ironia e supportato da un’eccezionale colonna sonora, perfetta nel dar forma e sostenere l’atmosfera del film come pure nel caricare di pathos determinate sequenze. Un film antitarantiniano ma estremamente originale, che dimostra ancora una volta l’immenso talento del cineasta americano, segnato da una eccezionale capacità come manipolatore di storie e di personaggi, unito a uno straordinario senso visivo. Una storia avvincente capace di tenere gli spettatori incollati sulla poltrona per tutta la sua durata.