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La sindrome di Antonio

14/12/2016 11:00

Riccardo Cotumaccio

Recensione Film,

La sindrome di Antonio

L'opera prima del regista e scrittore Claudio Rossi Massimi

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1970. Antonio (Biagio Iacovelli) sceglie di partire alla volta della Grecia dopo aver superato l’esame di maturità. Alla guida della sua cinquecento ha un solo obiettivo: trovare la caverna delle ombre di Platone. La passione per la filosofia lo porta ad Atene, dove fa la conoscenza di Maria (Queralt Badalamenti), disposta ad aiutarlo nella sua particolare ricerca. Tra i due nasce un feeling a metà tra l’intesa e lo scontro, in un percorso impreziosito da incontri dal carattere romanzesco (Giorgio Albertazzi, tra questi, interpreta un pittore muto, elegante e misterioso). I chilometri percorsi concedono ad Antonio la possibilità di conoscere l’attualità di un paese vessato dalla dittatura dei colonnelli, con meno libertà d’espressione rispetto alla sua Italia. Ma soprattutto di scoprire l’amore.


Opera prima del regista e scrittore Claudio Rossi Massimi, La sindrome di Antonio - tratto dal romanzo omonimo dell’autore - vanta l’ultima interpretazione su grande schermo del compianto Giorgio Albertazzi, noto maestro teatrale. La sindrome di Antonio è un romanzo trascritto su grande schermo con eccessiva fedeltà, dimenticando alcuni passaggi fondamentali dalla carta allo schermo. I dialoghi, lunghi e ridondanti, appesantiscono il film dandogli un senso di finzione evidente, aggravato dalla recitazione fortemente teatrale degli interpreti. La trama - tipica del genere "road trip" - pecca di originalità e galleggia su un livello mediocre: i protagonisti faticano a calarsi nei personaggi e mantengono una certa distanza dal ruolo, finendo per somigliare a una coppia alla Tre metri sopra il cielo ovviamente rivista in chiave filosofica. I personaggi secondari - tra cui Vasilis, interpretato da Antonio Catania, titolare di un motel - non incidono e solo le scenografie naturali di un paese splendido come la Grecia - accompagnate però da una fotografia accecante - alzano il livello di visibilità del prodotto. La stessa interpretazione di Albertazzi, teatralmente impeccabile, cozza con il simbolismo di un ruolo visto e rivisto. Il pittore silente, vestito di bianco, dagli sguardi intensi e in attesa della morte, non colpisce per innovazione e sembra forzatamente legato a un modo fatto di parole scritte con inchiostro e non di inquadrature su telecamera. Da segnalare per intensità, invece, il ruolo di Remo Girone (voce narrante) e di Moni Ovadia. Perle disperse in un oceano di buoni presupposti.


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