Nel panorama musicale dagli anni ’60 a oggi, i Queen sono senza dubbio una delle band più importanti e cruciali, che devono molto (se non tutto) alla genialità eclettica del loro frontman Freddie Mercury. Un’artista fuori misura che è riuscito a fondere sonorità rock e liriche in modo inedito e sorprendente; un autentico genio musicale, dove la genialità va ovviamente di pari passo con la sua sregolatezza: una vita costellata di eccessi, abuso di droghe e promiscuità sessuale, stroncata dall’AIDS a soli 45 anni. Per questo, dal momento in cui è stata annunciata la messa in cantiere di un biopic su di lui (era il 2010), la curiosità è schizzata alle stelle. Ci sono voluti 8 anni per portare a compimento questo progetto, tra continui rimandi di produzione, quattro diversi sceneggiatori, il susseguirsi di una serie di nomi per vestire i panni di Freddie Mercury (prima Sacha Baron Cohen, poi Ben Whishaw, infine Rami Malek) e il licenziamento di Bryan Singer a poche settimane dal termine delle riprese. Tutti fattori che non hanno fatto altro che minare la fiducia dei fan.
La storia si concentra sul periodo tra il 1970, anno in cui Mercury viene in contatto con Brian May e Roger Taylor, fondando di fatto quelli che sarebbero stati i Queen, e il 1985, quando la band partecipa al monumentale Live Aid nello stadio di Wembley. Ci viene presentato Freddie Mercury come un ragazzo insicuro, deriso, che però si trasforma quando sale sul palco e impugna un microfono; ci vengono mostrati i contrasti con la famiglia di origine pakistana e di fede musulmana, gli eccessi, l’amore incondizionato per l’amica (e per un certo perido anche moglie) Mary Austin e la lenta presa di coscienza di essere gay. Quello che ne emerge è ritratto fatto sì di molte luci, ma anche di svariate ombre, com’è giusto che sia per restituire un personaggio quanto più fedele possibile dell’artista originale.
Ci sarebbero da dire un sacco di cose a proposito di questo Bohemian Rhapsody, nel bene e nel male, elogi entusiasti e critiche inferocite, ma la verità è che l’essenza del film è racchiusa in una scena molto precisa a circa metà del minutaggio. Quella in cui i Queen presentano al loro produttore discografico Ray Foster – un grottesco Mike Myers che, sepolto sotto strati di trucco prostetico, ricorda Tom Cruise in Tropic Thunder, solo che quello era un film comico – quello che vorrebbero usare come singolo per il lancio del loro quarto album in studio, A night at the Opera. La canzone in questione è appunto Bohemian Rhapsody.
Ray Foster si oppone fermamente, sostenendo che la canzone, con il suo strano miscuglio di rock e lirica, è troppo insolita e poco commerciale, estremamente lunga (più di 6 minuti) per poter passare in radio. E soprattutto ha un testo criptico e inconcludente. Questa scena racchiude anche il vero significato di Bohemian Rhapsody, il film: un’opera che in più di un frangente sembra portare sullo schermo una serie di scene slegate e poco omogenee tra loro, alcune molto belle, altre decisamente meno. Sul finale però, quando la pellicola chiude il suo cerchio e Freddie sale sul palco del Live Air davanti a 72 mila persone, ha inizio una sequenza di musica e montaggio da brividi, dove ogni scena, ogni personaggio, ogni storyline trova la giusta chiusura. Ogni pezzo trova la giusta collocazione, tanto da riuscire a cogliere in modo inequivocabile il vero significato di Bohemian Rhapsody (la canzone): è la storia della vita di Freddie Mercury, un inno autocelebrativo, dove luci e ombre, dolore e gioia, si mischiano in una sonorità unica. Tanto basta per fare di questo film un’ottima biografia, tanto di Freddie Mercury, quanto dei Queen.