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La paranza dei bambini

15/02/2019 11:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

La paranza dei bambini

Unico film italiano in concorso alla Berlinale

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Unico film italiano in concorso alla Berlinale La paranza dei bambini è l’ultimo lavoro di Claudio Giovannesi, regista di Fiore, ma anche di Alì ha gli occhi azzurri, La Casa sulle nuvole e di alcuni episodi di Gomorra - La Serie. Nonché di molti e bellissimi documentari. La precisazione non è un caso, perché il suo percorso è lungo e coerente: nel cinema Claudio Giovannesi si è ricavato il suo spazio con forza, partendo dai documentari (mai abbandonati del tutto) e ha imposto il suo punto di vista in maniera sicura, senza incertezze, con una chiarezza encomiabile. La paranza dei bambini, prodotta da Palomar con Vision Distribution, è stata sceneggiato da Roberto Saviano e dallo stesso Giovannesi insieme a Maurizio Braucci. Il cast è stato formato scegliendo attori non professionisti provenienti dal rione Sanità, per portare sullo schermo volti autentici e in armonia con gli eventi narrati: i giovani Francesco Di Napoli, Artem Tkachuk, Alfredo Turitto, Ciro Vecchione, Ciro Pellecchia, Viviana Aprea, Mattia Piano Del Balzo. Questi quindicenni dai soprannomi innocui – Maraja, Pesce Moscio, Dentino, Lollipop, Drone – sono adolescenti che non hanno un domani e nemmeno ci credono. La paranza dei bambini narra la loro storia: la controversa ascesa di una paranza – un gruppo di fuoco legato alla Camorra – e del suo capo, il giovane Nicolas Fiorillo. Appollaiati sui tetti della città, imparano a sparare mirando alle parabole e alle antenne, poi scendono per le strade a seminare il terrore in sella ai loro scooter. A poco a poco ottengono il controllo dei quartieri, sottraendoli alle paranze avversarie, stringendo alleanze con vecchi boss in declino.


L'accoglienza del pubblico di Berlino è stata calorosa. Non era semplice girare l’ennesimo film sulla Camorra senza mettere il pubblico nella condizione di assistere a un banale déjà-vu. Eppure gli elementi c’erano tutti: i quartieri di Napoli, la società criminale, Saviano e il suo immaginario collettivo. C’è Gomorra - La serie, di cui lo stesso Giovannesi ha girato due episodi. Ma soprattutto c’è quel libro dal quale il film è tratto, che ci porta per metonimia a pensare a una storia spin off di Gomorra, perché questi bellissimi ragazzi raccontati tra le pagine ricordano tantissimo i protagonisti della serie.


Invece La paranza dei bambini spiazza proprio il lavoro intelligente fatto sul materiale narrativo. Sottraendo il più possibile e riducendo al minimo necessario i tópoi narrativi di un certo cinema di genere, Claudio Giovannesi dimostra di aver realizzato un film di formazione assolutamente personale, diverso dalla rappresentazione del "gangsterismo" a cui siamo abituati. Ma forse - paradossalmente - è il film più pop della sua filmografia. Cercando una propria interpretazione, mette in scena gli effetti devastanti del vuoto, concentrandosi su tutto ciò che ai piccoli protagonisti è stato negato, senza rinunciare però a un’estetica dei sentimenti. Un film di formazione senza un formatore, senza educazione, in cui i protagonisti bastano a se stessi perché hanno il mondo in tasca: sono la generazione dei tutorial su Youtube, del 3D, di chi risolve i problemi digitando sul telefonino. Sono la generazione che oscilla tra digitale e rappresentazione, più che tra reale e finzione.


Senza rinunciare a scene più patinate, il vero cuore della film sta semplicemente nel percorso di appropriazione di un ruolo del suo protagonista: è spavalda dimostrazione di capacità di sopravvivenza, è arrogante individuazione di un succedaneo all’assenza (di un padre, di mezzi, di un dio, della scuola, poco importa). Questo punto di vista è la vera rivoluzione della pellicola.


Con la macchina da presa sempre addosso ai protagonisti, Claudio Giovannesi ci porta in una dimensione, che non è spazio temporale, ma è una condizione. Non ci interessa l’epoca, il posto. Napoli diventa un non luogo perché la città stessa è lo sguardo di questi ragazzi che tengono testa a dei boss navigati, con tutta la spensieratezza e la sregolatezza della loro età. No, di più: di chi non ha niente da perdere. Napoli, da particolare, si fa generale: diventa una regola, un modo di vivere universale a determinate condizioni, un’equazione mortale alla quale è impossibile sottrarsi.


Il lavoro fatto da questa grande macchina è commovente: tra il casting (Chiara Polizzi ha visto oltre 4000 ragazzi), la fotografia (splendida, di Daniele Ciprì), il montaggio (la bravura di Giuseppe Trepiccione), la bellissima e struggente ricostruzione degli ambienti dello scenografo Daniele Frabetti. La regia mostra tutto lo sforzo e il coraggio di prendere un materiale narrativo difficile e di dirigersi in direzione ostinata e contraria verso qualcosa di profondamente intimo e personale. Grazie a una fotografia che ci costringe a un silenzio religioso, entriamo in un posto segreto in cui si assottiglia la forbice tra reale e finzione. Con lo sguardo insanguinato ma spensierato, la macchina da presa ci porta a imbracciare le armi a cuor leggero. Con le mani sporche di sangue e il cuore così bianco, li guardiamo inermi e impotenti costruirsi la loro possibilità.


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