Quanti film italiani ricordate che iniziano con l’esplosione di una grossa villa? Ecco, Dolceroma ha questo incipit: qualcosa che non siamo abituati a riconoscere come “nostro cinema” e che alza sin da subito le aspettative dello spettatore su un film dal respiro meno provinciale del solito. Una sensazione che si amplifica quando conosciamo meglio il protagonista di questa storia: Andrea Serrano, uno scrittore (o aspirante tale) demotivato, che vive la propria vita in maniera apatica. Tutta la sua presentazione avviene in voice over, a base di battute tanto ciniche e pessimistiche da rievocare a gran voce Chuck Palahniuk in persona da quanto sembrano essere state prese di peso da Fight Club. Dopo questo inizio folgorante (e alcune trovate di regia davvero notevoli) sembra però che il film si accodi “alla tradizione” riciclando alcuni stereotipi stantii: i camorristi che parlano in napoletano stretto per esempio, che dopo Gomorra - La serie hanno anche un po’ stancato; l’elite culturale e sporca che richiama a gran voce La Grande Bellezza (tra l’altro Armando De Razza ricorda non poco Toni Servillo in quel film); persino la storia d’amore impossibile tra lo scrittore sfigato e l’attrice bellona. Ma è tutta apparenza perché ovunque serpeggia una critica sottile alla nostra industria cinematografica, rappresentata da un mostruoso Luca Barbareschi che è bellissimo trovare in così splendida forma. Nei panni di un produttore cinematografico senza scrupoli,che a tratti sembra il Les Grossman di Tom Cruise in Tropic Thunder, a tratti il Ruggero De Ceglie de I soliti idioti, Barbareschi catalizza su di sè l’attenzione e divora letteralmente il film. La storia, come detto, ruota attorno ad Andrea, scrittore, che con una botta d’inaspettata fortuna viene contatatto dal produttore Oscar Martello (Barbareschi) intenzionato a portare il suo libro al cinema. La produzione però è tutt’altro che serena: il film viene affidato nelle mani di un regista/autore che se ne infischia che il materiale di partenza sia un misto tra action e spionaggio. Terminate le riprese, il film si rivela un disastro - per usare un eufemismo - perciò Andrea e Oscar decidono di attuare un piano di marketing estremo: nascondere la protagonista del film e inscenare un rapimento da parte della Camorra, così che i media diano risonanza alla notizia, amplificando la pubblicità al film. Ma ovviamente le cose non andranno tutte per il verso giusto... o forse sì? Un po’ commedia (soprattutto nella parte inziale), un po’ noir, un po’ thriller. Il risultato finale non è omogeneo, ma di sicuro è interessante e lascia trasparire la volontà degli autori di fare qualcosa di diverso dalla solita commedia ritrita o film impegnato, anche se è impossibile dare un’etichetta precisa a Dolceroma. Non a caso a scrivere e dirigere vi è Fabio Resinaro, che negli ultimi anni si è fatto notare come regista e sceneggiatore in coppia a Fabio Guaglione. Sono i Fabio&Fabio che stanno cercando di riportare di moda il cinema di genere italiano, prima con il bellico Mine, poi con l’action-fantascientifico Ride. Ed è con Ride che il film condivide il proprio protagonista: Lorenzo Richelmy (visto anche nel Marco Polo di Netflix) nei panni del mite Andrea. Una curiosa osservazione finale: è divertente notare come la storia alla base di Dolceroma rimandi a un capitolo quasi biografico della vita di Barbareschi. L’attore lombardo esordì infatti nel 1980 in quel capolavoro estremo che è Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, dove interpretava il fotoreporter di una troupe di documentaristi che sparisce nella giungla amazzonica. Di loro verranno ritrovate solo le bobine del girato. Un mockumentary a tutti gli effetti dove, per accrescerne il realismo, i quattro protagonisti (tutti sconosciuti) avevano come clausola contrattuale quella di non accettare altri incarichi entro un anno dall’uscita del film. L’idea era che non si facessero vedere per alimentare il sospetto che fossero stati veramente uccisi da una tribù di cannibali. Quando il film uscì in sala sollevò un polverone di polemiche e Deodato fu costretto a presentarsi in questura proprio con Barbareschi per dimostrare che gli omicidi erano una finzione. Insomma, è la stessa idea che proprio il personaggio interpretato da barbareshi mette in atto per promuovere il suo film. C’è tanto metacinema alla base di Dolceroma, molto di più di quanto ci si possa immaginare e più di quanto i loro autori siano disposti ad ammettere. «Non ha nessuna intenzione di essere una critica» ha dichiarato Resinaro, eppure è impossibile non notare le frecciatine al nostro sistema produttivo, più concentrato sugli incassi che sulla qualità, alla nostra critica borghese, alle nostre "visioni d’autore". E va benissimo così, soprattutto perché essa viene fatta attraverso un film di genere.