“La semplice percezione dell’amore romantico può spingere una persona a provare la sua vitalità, la sua risonanza e infine il coraggio che ci vuole per non giocare solo sul sicuro, per cambiare la propria vita”. Ed è questo stesso input intimo a spingere lo spettatore (prettamente quello di genere femminile) ad avvicinarsi a una pellicola come Letters to Juliet, etichettabile come sdolcinata e languida fermandosi già solo al titolo. Sophie (Amanda Seyfried) è una giovane aspirante scrittrice che vola in Italia con il suo fidanzato Victor (Gael García Bernal) per una vacanza pre-luna di miele. Ma per lui, che è uno chef in procinto di aprire un proprio ristorante a New York, il viaggio diventa l’occasione perfetta per entrare in contatto con una tradizione gastronomica che lo affascina e lo porta costantemente lontano dalla sua dolce metà. A Sophie non rimane che visitare le numerose attrazioni della città di Verona, tra le quali spicca su tutte la casa di Giulietta, meta prediletta di innamorati felici o disperati che proprio all’eroina shakespeariana lasciano valanghe di lettere in cerca di consigli. Qui scopre una lettera dimenticata da oltre cinquant’anni e spinta dal suo inguaribile spirito romantico decide di rispondere a Claire (Vanessa Redgrave). Accompagnata dal nipote Charlie l’ormai anziana signora torna in Italia alla ricerca di Lorenzo, il suo amore giovanile mai dimenticato. Quale occasione migliore che seguirli e avere così il materiale per il suo romanzo? E così il romanticissimo road-movie tra le campagne verdeggianti del Veneto e della Toscana comincia, portando i tre protagonisti in giro per paesini caratteristici e panorami mozzafiato dai tipici colori caldi del nostro Paese. Letters to Juliet è uno di quei film nei quali il territorio diventa protagonista, amplificando le sensazioni e, in questo caso, rafforzando il filo narrativo di una storia altrimenti troppo banale e lineare. Ciononostante l’opera di Gary Winick non spicca di originalità in mezzo al già vastissimo archivio di film promotori dell’idea di vero amore, non sempre identificato con la relazione stabile e sicura del momento. Il lieto fine si respira nell’aria già dalle prime scene e il modo in cui gli eventi si dipanano è prevedibile e senza nessun vero colpo di scena. Tutto il film è un continuo alternarsi di lati positivi e negativi: una buona fotografia ma un uso poco sapiente della colonna sonora, un cast eterogeneo e ben affiatato ma ricco di stereotipi, sunto perfetto di quello che alla fine è un progetto americano che ha cercato di porre il più possibile le sue radici in Italia, divenendo così un ibrido stilistico. Nonostante tutto Letters to Juliet riuscirà a far contenti i sognatori convinti, regalando loro 105 minuti di zuccherosità: “La cosa meravigliosa di questa tradizione (quella del cortile) e dell’amore in generale, è che ci vogliono credere tutti” ha affermato il regista Gary Winick. Se siete tra quelli che ci vogliono credere, il balcone di Giulietta vi attende.