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Hanna

08/08/2011 10:00

Antonella Murolo

Recensione Film,

Hanna

C’era una volta una ragazza che viveva da sola con suo padre in una piccola casetta di legno circondata dalla neve...

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C’era una volta una ragazza che viveva da sola con suo padre in una piccola casetta di legno circondata dalla neve. Fin da quando aveva ricordi, erano sempre stati solo loro due e nessun tipo di contatto con l’esterno: erano capaci di procurarsi tutto quello di cui avevano bisogno e si sostenevano a vicenda con l’aiuto di un’enciclopedia e di un vecchio libro delle favole. Detto così sembra l’incipit di una perfetta fiaba con il "vissero felici e contenti" impresso sull’ultimo fotogramma e invece si tratta delle prime scene di presentazione di uno dei film d’azione più poeticamente violenti della stagione.


Hanna è una ragazza brillante, molto curiosa e una figlia devota, ma è anche una delle poche della sua età a possedere la forza, la resistenza e la furbizia di un soldato. Tutte caratteristiche apprese da suo padre, un ex agente della CIA, nascostosi nelle zone selvagge del nord della Finlandia per salvare la figlia dal suo passato, sempre in agguato. Educata per essere l’assassina perfetta, fredda e imperturbabile, Hanna è finalmente pronta per affrontare la missione per cui è stata addestrata da sempre: affrontare la spietata agente Marissa Wiegler.


Si erano già incontrati nel 2007, il regista Joe Wright e l’allora giovanissima Saoirse Ronan, e la loro unione sul set aveva dato vita a Espiazione di cui tutti hanno amato le atmosfere e la sottile metodologia narrativa, filtrata proprio dalla personalità del personaggio di Briony. Quattro anni dopo l’alchimia lavorativa tra regista e attrice sembra non essersi affievolita per niente e i risultati si vedono in Hanna. Difficile trovare dei punti di congiunzione tra le due pellicole: «Voglio che tutti i ruoli che interpreto rappresentino delle sfide», ha confessato a tal proposito la giovane, ma ormai affermata, protagonista. «Hanna è diverso da ogni altro dramma che ho affrontato. Qui c’è una teenager che è stata cresciuta in una foresta e ha ricevuto tutta la sua educazione dal padre; non ha mai nemmeno incontrato nessuno prima». Ancora una volta Joe Wright decide di affidare la narrazione dell’intera storia agli occhi, innocenti seppur spietati, del personaggio principale. Con un oscuro passato, si comincia a conoscere Hanna non appena decide di abbandonare il protetto nido nascosto dalla neve. Nonostante sia cresciuta imparando ad non abbassare mai la guardia ed essere sempre pronta a tutto, Hanna è del tutto ignara della vita esterna e così rimane affascinata da tutti e da tutto ciò che incontra. «La qualità che preferisco di lei è che non ha l'approccio di chi giudica; mostra di avere la mente aperta ed un’attrazione verso tutto. È un po’ bizzarra, ma a me piace. Mi piacciono le persone strane». E l’amore che Saoirse Ronan prova nei confronti della sua pallida Hanna emerge da ogni inquadratura, con un’interpretazione intensa e agghiacciante, capace di contrapporre i toni morbidi della favola - tangibile nel sotto testo - con la violenza delle azioni che si alternano glacialmente sullo schermo.


Hanna non si muove, almeno finché non deve. I suoi occhi non trovano qualcosa, vanno semplicemente diretti al punto; non ha nemmeno espressioni facciali esteriori ad eccezione di quando combatte e diventa quasi animalesca. È nel suo modo di muoversi nella storia e interagire con gli austeri Eric Bana e Cate Blanchett, che Joe Wright punta tutta la forza della pellicola, impostata come un film d’azione che si impone di non esagerare con i toni e, proprio per questo, enfatizza la violenza dei gesti. Il regista calcola ogni inflessione scenica, persino la somiglianza, accentuata a livello scenografico, con favole come quella di Hansel e Gretel: c’è una famiglia che vive in una capanna nel bosco e lo svolgimento della storia avviene per riti di passaggio. Il figlio deve uscire di casa e scontrarsi con il mondo esterno, dove le esperienze sono ostacoli. «Le favole dal mio punto di vista», commenta il regista, «non sono mai storie felici o dolci: sono storie di morale che implicano il superamento del lato oscuro, del male». Ed è come una revisionata eroina che Hanna si dirige verso il suo, sconosciuto, lieto fine.


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