Giunta al suo quarto lungometraggio, Sofia Coppola regista dalla cifra elegante e semplice, consegna al suo pubblico un’opera fatta di schegge d’esistenza, di corse e ritorni, di emozioni intense che sembrano sempre fuggire via. Il film racconta la storia del divo Johnny Marco (un azzeccatissimo Stephen Dorff), di casa al celebre Hotel Chateau Marmont di Los Angeles, abituale lussuoso rifugio di attori e personaggi dello star system Hollywoodiano. Nella sua vita c’è tutto, troppo, ma manca l’essenziale. Johnny trascorre le sue giornate svogliato e inebetito, tra squallidi spettacoli di lap dance a domicilio, festini notturni, sesso fiacco e corse in macchina. Un matrimonio fallito alla spalle e una figlia Cleo (un’eterea Ellen Fanning), con la quale, in seguito ad un improvviso allontanamento della madre, si ritroverà a convivere per un breve periodo, cimentandosi finalmente con sé stesso, con il proprio ruolo di uomo e padre. Somewhere è un distillato del contemporaneo male di vivere, di quell’attesa fluttuante di cui già Lost in Translation si era occupato, di quei tempi morti che disturbano costantemente la vita di ciascuno. È la consacrazione dei non-luoghi: le scialbe e incolori camere d’albergo, i lunghi corridoi, le infinite highways californiane da percorrere e ripercorrere. Niente di più spersonalizzante, di meno identitario. Un’opera degli anni settanta, che ama la ripresa sporca che si attacca ai personaggi, i campi fissi e svuotati che aspettano di riempirsi e quel senso di fugace luminosità nella fotografia (una lode ad Harris Savides). La colonna sonora (Phoenix) evita ridondanze e didascalie: le scie rock newhollywoodiane la fanno da padrone ed il rombo della Ferrari è molto più che un effetto sonoro: è un compagno di viaggio e di vita. Sofia Coppola è davvero un’allieva modello. Strizza l’occhio alla Nouvelle Vague e segue da lontano, eppure così tanto da vicino, l’andare a zonzo del suo protagonista, favorendo l’interazione della coppia di attori in un insieme davvero ben intonato. Non manca di rincorrere, a tratti, l’autobiografismo, con le allusioni a papà Coppola e ad un viaggio-fuga dall’Italia con tanto di scappatella, dopo una serie di imbarazzanti cammei. Non accade e non deve accadere nulla in Somewhere. È lo svolgersi di una condizione, frammentata nei suoi diversi attimi di stasi e di (im)possibili (ri)partenze alla ricerca di un’identità . Ed è una sospensione liquida, acquatica che si nutre di momenti fortemente poetici. La purezza di due corpi angelici pieni di sole che si sono scambiati mossette sottacqua, le evoluzioni sui pattini della Fanning, i teneri spuntini notturni a base di gelato e la maschera di gesso che imprigiona Johnny e lo blocca per sempre nel proprio ruolo, possono ampiamente ricompensarci. È il trionfo del minimalismo. La Coppola scava e agisce per sottrazione. Ci restano istantanee. Silenzi. Più vuoti che pieni. Pezzi di cuore ed immagine… là … somewhere.