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Audition

29/11/2010 12:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

Audition

Se siete rimasti terrorizzati dalla scoperta del cinema orientale che negli anni passati è approdato da noi con Ringu e Ju-On e relativi remake americani, allor

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Se siete rimasti terrorizzati dalla scoperta del cinema orientale che negli anni passati è approdato da noi con Ringu e Ju-On e relativi remake americani, allora non conoscete la vera potenza di questo genere di film e dei maestri del sol levante. Un cinema viscerale, di cui il circuito mainstream occidentale ha appena scalfito la punta dell'iceberg; una produzione inarrestabile che sforna centinaia di titoli all'anno. Lo spettatore che dovesse imbattersi inconsapevolmente in Audition (tratto dal romanzo omonimo di Ryu Murakami), si troverà davanti agli occhi quella che potrebbe sembrare una storia d'amore come molte altre. Atmosfere romantico/malinconiche che il regista affresca come se si trattasse di un film d'autore. Inquadrature lunghe, fisse, con personaggi che vi si muovono all'interno con gesti lenti e calibrati, come ripresi sott'acqua. I dialoghi sono intervallati da lunghe pause di silenzio e splendide sequenze suggellate da struggenti partiture di pianoforte. Il film esplora i temi abusati della solitudine, dell'amore e del disperato bisogno che un uomo di mezza età ha di trovare una compagna per la vita, con toni che non si appiattiscono mai e riescono a evitare tragici scivoloni nella banalità tipica di prodotti simili.


Aoyama (Ryo Ishibashi) è un uomo alla soglia dei cinquant'anni che ha perso la moglie da nove anni. Un suo amico, produttore cinematografico, indice un'audizione per fargli conoscere alcune donne; lì incontra Asami (Eihi Shiina), splendida ventiquattrenne con un trascorso da ballerina e un enigmatico passato.


Il regista Takashi Miike (considerato da Tarantino uno dei suoi maestri) tesse una storia d'amore classica, che nasce, cresce e travolge i due protagonisti fino alla conclusione ideale in cui fanno l'amore in una stanza d'albergo: un momento tanto idilliaco quanto catastrofico (almeno dal punto di vista narrativo) che rappresenta la cuspide oltre la quale il film mostra il suo vero volto. Per la prima ora, infatti il film si limita a disseminare inquietanti indizi sull'oscuro passato di Asami, tracciando una tensione di fondo che va via via ingrossandosi fino all'imprevedibile epilogo finale in cui erutta con violenza tutto il sadismo e la violenza prima trattenuti. Già, perché Miike è uno che non ha mezze misure quando si tratta di mostrare qualcosa, basti pensare alle vette di violenza raggiunte dai precedenti Dead or alive e Fudoh e dal successivo Ichi the Killer, diventato poi suo film-manifesto. Nel suo epilogo, Audition però prende le distanze dalla messa in scena gore e ossessivamente voyeuristica di prodotti occidentali come Saw e Hostel. Il risultato è molto più disturbante e dolente di quello ottenuto dalle suddette pellicole. Miike sa che nervi sollecitare e lo fa con noncuranza, senza ostentazioni di genere, mantenendo quello stile visivo lento e pacato che caratterizza tutta la pellicola, intervallando i silenzi con dilanianti urla di dolore e con le folli ragioni di Asami. Il suo «più giù, più giù, più giù» rimarrà conficcato come uno spillo nella mente dello spettatore per molto tempo.


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