Dall’omonimo romanzo della scrittrice e sceneggiatrice Carla Vangelista, già autrice, insieme allo stesso Muccino, del libro Parlami d’amore, nonché della trasposizione cinematografica che ha segnato l’esordio alla regia del giovane autore, Un altro mondo è la storia di Andrea (Silvio Muccino), un trentenne malato di contemporanea indolenza. Una famiglia ricca alle spalle, un difficile legame con la madre (Greta Scacchi), un’esistenza molle e priva di responsabilità che affonda nel vuoto espressivo e affettivo. Ha per compagna Livia, etera danzatrice e bulimica di professione (Isabella Ragonese, stranamente sottotono) e si lascia vivere con poche precauzioni, circondato da amici senza amicizia. Il giorno del suo compleanno, riceve una lettera dal Kenya che gli annuncia l’imminente morte di suo padre, assente (in)giustificato per vent’anni. Andrea mosso più da una curiosità piena di rancore che da pietà filiale, parte per Nairobi. Una volta in Africa, si ritroverà a dover gestire un’eredità alquanto singolare. Scoprirà infatti di avere un fratellino di colore di appena 8 anni, Charlie (Michael Rainey Jr. disarmante attore-bambino di talento) avuto dal padre da una donna del luogo, di cui finirà per occuparsi e che rivoluzionerà la sua esistenza e la sua relazione sentimentale, spingendolo ad analizzarsi e a confrontarsi con se stesso in un delicato viaggio fisico e interiore. Un film “sulla strada”, di ricerca e crescita, tra Nairobi e Roma. E una manciata di personaggi curati da vicino. Muccino Jr. ci riprova e dopo le sospirate e propizie lezioni d’amore sussurrate dalla sempre bella Aitana Sánchez-Gijón, apre stavolta al romanzo di formazione, in cui andare è ogni volta cambiare ed in cui il piccolo educa il grande spalancandone il cuore. Un altro mondo è un prodotto decisamente adatto agli umori natalizi. Depresso e sentimentale al punto giusto, sa essere all’occasione una commediola divertente e sincera, con effetti spacca cuore sempre dietro l’angolo ed happy end di rito. Freddo e acido nella prima metà, con tutto il suo carico di non detto – o detto male – l’arrivo in Africa è scandito da immagini che si perdono nel quadro come istantanee veloci. Il giovane Muccino pecca di acceso virtuosismo, acceca, sgrana e non (ci) risparmia, trastullandosi con obiettivi e macchina da presa: mosse videoclippate, fuori fuoco, ritmi sincopati e contrasti che bruciano, e dopo ralenti, onnipresente voice over, camera a mano che grida intimità. Ocra e polvere. Un’Africa grandangolare piena di cielo e di stelle, la cui luce può ammaliare. E poi “The boss” Bruce Springsteen ha concesso la grazia. A emozionare arriva infatti la bellissima Secret Garden e non accadeva dai tempi di Palombella Rossa. Ancora dinamiche che da sempre inteneriscono. Un’adozione forzata che trasformerà Andrea in un uomo consapevole (Muccino guarda ad About a boy). Un fratello-padre che riparte da un vuoto e si spinge lontano, attraversando l’abisso in cui la mancanza del genitore lo ha precipitato e tornando, come sempre, nuovo e migliore. La dolorosa assenza tuona per tutto il film: il padre resterà per sempre invisibile, anche mentre l’altro mondo se lo piglia sul letto di morte. Questo ragazzo ha avuto un’esistenza geometricamente perfetta, lisciata dal costoso design che ha ghiacciato il suo appartamento. Vissuta sulla scala dei grigi, ma pronta al guizzo del giallo. Andrea deve far posto. Charlie è lì a prenderselo. Diverso e indesiderato. Piccolo e logorroico, nero e più bastardo di lui. Un altro mondo. Tutto cuore e occhi a spezzare un equilibrio che non c’è, a rompere il silenzio con la cantilena, ad insegnare l’arte della parola e dell’ascolto, ficcando il dito nella corazza di sale di cui ciascuno si è armato. Un dinosauro arancione per amico, il piccolo se la cava benissimo e, anche se il grande non è Will Smith stavolta, e c’è una mamma di ferro a staccare assegni mensili per il figliol prodigo adesso più che mai confuso, Un altro mondo riesce comunque a spiazzare, regalandoci momenti di grande intensità. Così, dopo una notte passata a ricercare in una piega del viso quella somiglianza che rende fratelli e che forse non c’è, si possono anche perdonare qua e là cadute di stile e di tensione che tolgono al film quella ragione e quel sentimento che lo avrebbero reso davvero compiuto.