Raccontare per immagini, non per parole. Mettere in scena solo gli elementi necessari al racconto. Sono due delle principali regole alla base di un film, manifesto di un’essenzialità estetica e narrativa. Perché nonostante tutte le trasgressioni e l’evoluzione dello stile avvenuto nel corso dei decenni, il cinema resta un’arte che funziona meglio per sottrazione di elementi.
E se vi è un genere che più di ogni altro trova giovamento da queste regole, esso è indubbiamente l’horror. Un film dell’orrore diventa più efficace e affilato tanto più viene spogliato da qualsiasi fronzolo; asciugando la storia, scarnificando le immagini, rendendo essenziale la messa in scena ciò che rimane ed emerge in maniera preponderante sono i sentimenti su cui il genere si basa: il terrore, la paura, il disagio, l’angoscia e tutti quegli elementi che fanno di un horror un film degno di tale nome.
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Sono sempre stato un appassionato di mostri. Mi hanno sempre affascinato, e crescendo questa mia passione si è evoluta e votata al cinema horror. Nel 2003, in piena adolescenza, ero alla scoperta del genere: divoravo qualsiasi cosa che potesse essere anche solo vagamente orrorrifica ma, soprattutto, ero intenzionato a recuperare i classici del genere. Un'impresa non banale in un epoca dove internet era agli albori e “streaming” e “download veloce” erano pura fantascienza. Ciò che restava erano le care, vecchie videoteche di provincia e Notte Horror su Italia1. Recuperai senza problemi Nightmare, Venerdì 13 e L’Esorcista, ma di altre piere miliari – La Casa, Non aprite quella porta – vi erano solo i sequel.
Per mia fortuna il fratello della mia ragazza di allora era anche lui un cultore di film horror e un pomeriggio notai su uno scaffale un VHS con due titoli scritti a mano sull’etichetta adesiva (quanto vintage e nostalgia!): il primo era Non aprite quella porta (avevo visto l’allora recente remake di Marcus Nispel, adorandolo sin da subito!), il secondo era Hellraiser (sapevo vagamente cosa fosse perché in Dylan Dog di tanto in tanto compariva il tizio con la testa coperta di chiodi). Così presi la palla al balzo e me la feci prestare.
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Hellraiser mi entrò subito sottopelle, ma per quanto riguarda Non aprite quella porta rimasi molto deluso. Lo trovai noioso, lento, sciatto. Come poteva essere considerato un capolavoro del genere, osannato da intere genereazioni di registi e fan? Non riuscivo a capacitarmene. Così lo depennai dalla lista dei film da vedere e andai avanti, senza più approcciarmi a quella pellicola, mantenendone un ricordo brutto e sbiadito e seguitando a ritenere il remake di Nispel di molto superiore all’originale. Avevo molto da imparare.
bThe Texas Chainsaw Massacre, 2003/b
Il film di Marcus Nispel è stato il primo dello stuolo di remake/reboot che ha caratterizzato il cinema horror mainstream degli anni 2000 e, in qualche modo, dettato delle nuove regole che i film successivi (Venerdì 13 dello stesso Nispel, Nightmare di Samuel Bayer e a tratti persino Halloween – The Beginning di Rob Zombie) hanno seguito: fotografia pesante, colori iper-saturati, una messa in scena dettagliata, scenografie barocche dense di dettagli sullo sfondo.
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Dal punto di vista della sceneggiatura si cerca disperatamente di caratterizzare i personaggi in maniera non banale ma, nonostante gli sforzi, ricadono sempre nei medesimi cliché del genere: appaiono odiosi e instillano nello spettatore il forte desiderio di vederli macellati nella maniera più violenta possibile. Perché il vero protagonista, molto più che nei film originali, è il cattivo, divenuto nei decenni una vera e propria icona della cultura pop. Ciò non è necessariamente un male: questo tipo di operazioni ogni tanto riescono a rastrellare tra i giovani spettatori dei nuovi fan che, per curiosità, poi andranmno a recuperare le vecchie saghe e, nel tempo, impareranno ad apprezzarle, comprendendo il motivo per cui quei film degli anni ’70 e ’80 sono stati così seminali per il genere.
bThe Texas Chainsaw Massacre, 1974/b
Tobe Hooper si è spento lo scorso 26 Agosto all’età di 74 anni. Lo si considera uno dei fondatori del cinema horror moderno sin da quando nel 1974, trentunenne, girò Non aprite quella porta. All’epoca faceva l’insegnante in un college di Austin e grazie all’aiuto di un pugno di studenti e colleghi scrisse, produsse e diresse questo bizzarro e violento film indipendente, vagamente ispirato alle gesta necrofile di Ed Gein, il macellaio di Plainfield, cambiando per sempre il corso della storia del cinema. Horror e non. Il resto della sua carriera è stato altalenante e spesso non all’altezza di questo film, tanto che molti critici si sono spesso chiesti se non fosse stato un colpo di fortuna a fargli dirigere una pellicola così imprescindibile.
Perché rivisto oggi, a più di 40 anni dalla sua uscita, Non aprite quella porta è realmente una pellicola seminale. Una specie di Stele di Rosetta del genere, attraverso la quale è stato possibile codificare e replicare il cinema horror, specialmente lo slasher. Sebbene in uno stato embrionale, gli elementi narrativi caratteristici di questo genere sono tutti lì. C’è la sterminata desolazione americana, tanto vasta da risultare inconcepibile per noi europei; c’è un gruppo di ragazzi qualunque (la genialità di Hooper è stata quella di inserire tra di loro un disabile, diversivo non da poco!) che sta viaggiando tranquillamente verso l’inevitabile imprevisto; ci sono i tipi strani e inquietanti ma fondamentalmente innocui (il gestore della pompa di benzina). Ci sono la follia e l’orrore che esplodono in maniera improvvisa e inaspettata, c’è il mostro caratterizzato con pochi elementi sufficienti a farlo entrare nell’immaginario collettivo (la motosega, la maschera di pelle umana) e c’è il concetto di final-girl.
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Dal punto di vista della messa in scena il film è l’apogeo del concetto di “horror per sottrazione” di cui si parlava in apertura. Forse complice il budget risicato, la natura di pellicola indipendente e la poca esperienza del regista, ma Non aprite quella porta fa della messa in scena essenziale il suo punto nevralgico. Tutto viene ridotto ai minimi termini (praticamente l’opposto del remake nispeliano che procede per accumulo e saturazione): dai dialoghi - vi è un solo concetto centrale nel film, ed è un discorso sulla modalità di macellazione dei capi di bestiame - alla colonna sonora - quasi del tutto assente - sostituita da rumori di fondo, l’incessante ronzio della sega a motore e le dilanianti urla delle vittime. Le scenografie, ambienti spogli e disadorni, si punteggiando di macabri dettagli solo nella scena finale a tavola. Le location si contano sulle dita di una mano: il furgone, la stazione di servizio, i campi incolti del texas e la grande casa abbandonata.
Persino il sangue. Per essere il prototipo dello slasher moderno è straniante notare come l’unico che vediamo effettivamente scorrere sia quello che fuoriesce da un taglio sulla mano nei primi 15 minuti. Nella restante ora di pellicola non vedremo schizzi di emoglobina, ma solo poche macchie statiche – su un gancio da macellaio, sul grenbiule di Leatherface – e praticamente zero frattaglie. Eppure il film è di una violenza disarmante, con l’ultima mezz’ora costellata da grida e grugniti che annichiliscono psicologicamente anche lo spettatore moderno. Vedere un film del genere al cinema del 1974 deve essere stata un’esperienza traumatica!
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bTobe Hooper, l'eredità/b
Non aprite quella porta è in buona sostanza l’ossatura su cui è stato costruito il genere negli ultimi 40 anni. Qualsiasi slasher, in ogni declinazione possibile e immaginabile, parte da qui e qui ritorna. Come la teoria di Christopher Booker, secondo cui ogni storia mai narrata a questo mondo è riconducibile a uno dei sette achetipi fondamentali (quindi in sostanza esistono solo 7 tipi di storie e ognuna è una variazione di esse): ebbene, per questo concetto si può asserire che ogni slasher è fondamentalmente una variazione di Non aprite quella porta.
Questo a sedici anni non riuscivo a capirlo. Ma riguardando il film ora, per onorare la memoria del suo autore, mi appare fulgido e lampante come non mai. Che sia stato un caso fortuito o il frutto di un autentico Master of Horror non lo sapremo mai, ma comunque non importa. Ciò che conta è solo dire: grazie Tobe!