Un viaggio nell'universo di Jane Campion, regista e autrice di cinema di pulsioni, di sguardi e visioni rubate.
Tra Jane Campion e i personaggi delle sue storie, in primis quelli femminili, esiste un punto di scissione che confonde l'interiore e l'esteriore producendo, nella realtà oggettiva, effetti trascendenti. Un po' come se a condurre le danze fosse il costante frastuono prodotto dallo sguardo muto di Ada in Lezioni di piano: «La voce che sentite non è la mia voce, ma la voce del mio pensiero».
Una sorta di difformità emotiva che, nell'universo patriarcale dominante frantuma l'idea maschile di ritrarre – seppur inconsciamente - “la donna dei sogni”, reclamando, per converso, un racconto femminile reale. Qui la continua oscillazione tra normalità e anormalità dovrebbe restituire, in tutte le sue sfumature, una visione altra, pacificata con l'idea di essere nel giusto: «Non penso che gli uomini vedano le cose in maniera sbagliata e le donne in maniera corretta, solo vediamo le cose in maniera diversa».
Lo scandaglio del desiderio è il cuore di questo dentro/fuori. La rappresentazione plastica delle due anime che abitano l'universo dell'autrice neozelandese: la seduzione letteraria e il rigore antropologico, che la portano a mescolare le categorie junghiane e “la saggezza nel sangue” (per dirla con il titolo di una delle sue autrici del cuore, Flannery O'Connor) e che trovano nell'architrave naturalistico, nella composizione ambientale, il sostegno per prendere infinite direzioni. E giocano su un'ambiguità che il giovane John Keats descrive così a Fanny, la sua bright star: «Tutti questi sentieri sono molto più numerosi delle vostre ciglia».
Allora immergiamoci (perché sono sempre film in cui ci si impantana, dove vale sempre un principio di profondità) nell'universo di Campion, bagnati d'acqua di mare o di lago, toccati dal fuoco e in equilibrio sul ghiaccio (In the cut), costretti a piegare il capo sotto l'incombenza di una montagna dalle fattezze animali (Il potere del cane), di fronte a parchi estivi curati o giardini fiaccati dall'inverno (Ritratto di signora).
Costantemente in preda a un attraversamento da sogno – o incubo – silvestre dove le foreste e i boschi, rigogliosi, aggrovigliati, spettrali, isteriliti, mostrano la natura per quello che è: un non-luogo di riconciliazione, un paesaggio dell'anima in continuo subbuglio, un sommovimento interiore che fa della sua imponenza la prova provata del suo opposto, il piccolo, individuale, racconto tormentato di un corpo.
Il rapporto domestico con l'arte per Jane (figlia di Edith, attrice e scrittrice, e di Richard, regista teatrale e d'opera) è una condizione naturale e innaturale insieme: sfogo e reazione a una deprivazione affettiva che i genitori e la loro professione impone e che ha certamente contribuito a rendere l'universo filmico di Campion un terreno perfetto per mettere in immagini i limiti stessi di questa visione del mondo.
Il contrappunto musicale di un pianoforte non suonerà mai come una voce umana; l'eco del sonetto del più grande poeta romantico dell'Ottocento non colmerà mai lo spirito come un bacio appassionato.
Carnalità e autocontrollo. Cinema di pulsioni, di sguardi e visioni rubate. Costantemente, l'incontro di corpi è un affare segreto, da sbirciare dal buco della serratura (Flora in Lezioni di piano, Toots in Bright star, Peter ne Il potere del cane), da sfiorare a piccole dosi, se possibile attraverso un prisma (ricordate il piccolo foro nelle calze di Holly Hunter che Harvey Keitel sfiora accucciato sotto il pianoforte?).
La tensione erotica è l'anello che tiene insieme le storie e che spinge la regista, rilanciando la posta, ad ampliare la platea degli interessati traducendo sempre le schermaglie a due in triangolazioni amorose, che alternativamente spingono la prossemica dei corpi ai margini dell'inquadratura, in un continuo gioco di inclusione ed esclusione.
Jane Campion, a quasi trent'anni dalla Palma d'Oro di Cannes, è ancora impegnata a realizzare il suo primo film, mostrando una coerenza di sguardo che non smette di stupire. Oggi come allora, Il potere del cane (Miglior Regia a Venezia78 e agli Oscar 2022) continua a misurare la dimensione umana dentro una spazialità smisurata, con la consapevolezza che non c'è stata epoca nella quale questo incontro/scontro si sarebbe potuto evitare.
Eppure qualcosa è cambiato. «Sono una donna e mi sembra perfettamente naturale la scelta di personaggi femminili. Non riesco a immaginare di raccontare la storia di un uomo, e non so perché dovrei farlo», dichiarava in un’intervista del 1999 alla scrittrice e giornalista Heike-Melba Fendel.
Eppure, dicevamo, ecco materializzarsi Phil Burbank, l'uomo col banjo, corpo nudo in una pozza d'acqua cristallina, nuovo esemplare di una epopea misogina (il West) giunta al capolinea, che ha smesso di impugnare armi e distruggere e si è convertito alla creazione di fiori di carta e solide corde.
Annientare la frontiera, oggi che le frontiere sono tornate pretesto per uccisioni su larga scala, è il perfetto punto di raccordo di un'autrice che ai pregiudizi di genere ha sempre saputo contrapporre la forza del sentimento, conferendo ai corpi apparentemente più fragili la più alta capacità di resistenza.
Cosa vede Phil Burbank che nessuno può vedere? E cosa vediamo noi, guardando un film di Jane Campion, oltre quello che scorre lungo lo schermo? Un orizzonte lontanissimo o una profondità senza fine? Certamente, sempre, un'emozione e insieme la sua rimembranza. «Il tocco ha memoria»: batte sul tasto della nota e ci batte in testa.