Apprestarsi a vedere un film di Michael Haneke ci riporta la stessa sensazione di quando si spengono le luci di un teatro e il sipario si alza. La consapevolezza che si sta per assistere a una rappresentazione, con la distanza emotiva che comporta, e al contempo che questa visione, pur nella mancanza di empatia nei confronti degli attori, ci porterà angoscia, sofferenza e probabilmente qualche scioccante rivelazione sulla natura umana, scuotendoci nel profondo.
Quello che viviamo è Il tempo dei lupi (2003), dove inevitabilmente il più forte – e il più ricco, il più borghese – sopraffà il più debole e ne distrugge il diritto a esistere, rimanendone al contempo distrutto, in un gioco dei ruoli umani in grado di sovvertire perfino le rigide regole sociali dei suoi film.
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Sin dai primi film, fino al più recente Happy End (tra qualche giorno al cinema), la messa in scena del regista austriaco è sempre molto composta e formale. I protagonisti sono persone erudite e – apparentemente – per bene, vivono in case bellissime con pareti tappezzate di libri e pavimenti ricoperti da tappeti persiani; sono gentili con i loro sottoposti, fanno lavori edificanti e le madri abbracciano con amore i figli.
Peccato che però, proprio mentre lo sguardo dello spettatore abbassa le difese e inizia perfino ad annoiarsi di fronte alle azioni e ai gesti normali e tranquillizzanti (lavarsi i denti, cambiare un soprabito, preparare una tazza di tè...), all'improvviso avvenga un piccolo - una cosa da niente, si sistema in un attimo - corto circuito.
La discesa agli inferi è graduale eppure vertiginosa. Come in un racconto di Dino Buzzati: la piccola crepa si insinua, sovverte le leggi naturali; ma in Haneke non c’è né la pietà nè la tenerezza dello scrittore italiano.
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Spesso si tratta di una violenza improvvisa. L'abbraccio delle madri (Juliette Binoche, Isabelle Huppert) si trasforma in un momento morboso, fastidioso, quasi osceno: come in Happy End , ultima fatica del regista. Ogni madre in Haneke è assente e impotente; oppure è una Medea, divoratrice di bambini.
I giochi innocenti dei bambini diventano atti di sadismo e crudeltà insostenibile ne Il Nastro Bianco; e se il sesso può esprimersi soltanto attraverso la sopraffazione e la violenza dei confronti dell'altro (La Pianista), l'amore ha diritto a essere tale solo se suggellato dalla morte (Amour).
La tragedia greca, la maledizione dovuta a peccato originario colpisce ogni generazione: dal nonno, che ha ovviamente le mani sporche di sangue, sino ai nipotini, adolescenti con volti di angelo e cuori neri.
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Nell'ultimo film, Happy End , prevedibilmente ironico fin dal titolo, sono in molti a volerla fare finita, in una corsa alla morte così tragica da risultare perfino comica. Del resto, sin dai tempi di (Funny Games). In Michael Haneke c’è sempre qualcuno che viene ucciso: per gioco o per leggerezza, per crudeltà o per follia.
In Happy End chi resta in piedi è lo zoccolo duro della famiglia Laurent – sì, si chiamano quasi tutti Laurent i protagonisti dei film di Haneke –: sopravvive la generazione di mezza età , persone con molto pelo sullo stomaco; i capibranco, i lupi che restano in vita spezzando ossa e calpestando i cadaveri altrui.
C'è qualcosa che corrode l'anima dei personaggi dei film di Michael Haneke da dentro e li trasforma in autentici mostri, incapaci di comunicare, di parlare, di rivelare se stessi se non nella tecnologia, attraverso i media.
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Già il protagonista di Benny's Video (1992) era ossessionato dalla tecnologia fino all'omicidio; e d'altra parte i vampiri rivelano la propria natura maligna soltanto quando si riflettono nello specchio, in modo indiretto. Scopriamo la loro assenza, quando vediamo che non ci sono. E così i personaggi di Michael Haneke.
La realtà ci viene sempre mostrata: attraverso una videocassetta che rivela che c'è qualcosa da nascondere oppure nella chat di un cellulare, che scopre l'abisso interiore di una quattordicenne omicida; o in uno scambio di e-mail sul pc che denuncia il tradimento coniugale in un amore sado-masochistico che per portare piacere deve per forza fare male.
Il dolore per dimenticare se stessi, per staccarsi e trascendere da quello che si è, e infine la morte, sono i temi più forti dei film di Haneke che, pulsioni nascoste e silenziose, aggrediscono e sconvolgono lo spettatore quando meno se lo aspetta.
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Michael Haneke c’è l’eleganza formale e la messa in scena perfetta di Alfred Hitchcock, ma anche un gioco di assassini nell'ombra, alla Luc Bresson, suo punto di riferimento. Ma c’è anche Pier Paolo Pasolini nella rappresentazione di una violenza responsabile. Sono vari i maestri ai quali si può paragonare il cinema di Haneke, capace di arrivare anche al grande pubblico e varcare i confini europei del complesso cinema d'autore fino a vincere un Oscar, nel 2012, con Amour.
Il cinema di Michael Haneke procura visioni spiacevoli, strazianti, bellissime. Imprevedibilmente gettate in pasto al pubblico nel mezzo di una cena elegante, di una conversazione borghese. Sono visioni necessarie per capire la realtà in cui viviamo: chi siamo stati, cosa siamo diventati. Visioni, come quella di Happy End, a cui bisogna arrivare preparati
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