Nella saga di Guinea Pig i film non hanno, in realtà, un vero e proprio filo conduttore. Non c’è nesso, non ci sono personaggi ricorrenti. In alcuni casi non c’è nemmeno una storia di base, ma solo un susseguirsi di sequenze shock.
Ma se i primi due capitoli erano accomunati da diversi elementi, sia stilistici (la qualità “amatoriale”, la quasi assenza di dialoghi e di una trama) sia narrativi (entrambi sono la cronaca di una tortura), al punto che il secondo è quasi una versione migliorata e aggiornata del primo, dal terzo capitolo in poi c’è uno stacco netto.
Il filo conduttore resta sempre la violenza, mostrata nella maniera più esplicita possibile sullo schermo. A parte questo, si cerca di aggiungere qualcosa. Innanzitutto iniziano a esserci delle trame. In secondo luogo registi diversi sperimentano toni diversi. Sembra quasi che Guinea Pig voglia diventare una specie di bigino della violenza, declinandola in tutti i modi possibili. La verità è che, come tutte le serie antologiche, a volte ci riesce, altre volte un po’ meno.
Ma come si può alzare il livello di gore e violenza dopo una cosa come Flower of flesh and blood? Semplice... non si può. Per questo il terzo Guinea Pig cambia totalmente rotta, confezionando un mediometraggio che poco o nulla ha a che fare con i precedenti due capitoli.
Innanzitutto l’impostazione è del tutto differente. Non si cerca più di far passare il film per uno snuff o presunto tale: viene impostato un racconto grazie a una trama che, non sarà Orson Wells, ma comunque ha una struttura e dei personaggi. Anzi, già il fatto che i personaggi abbiano dei nomi senza che si riducano a semplici carnefici/vittime, è un grande passo avanti. Di conseguenza anche regia e montaggio sono più presenti e raccontano una storia senza limitarsi solamente a incasellare una tortura dopo l’altra.
Il terzo punto di stacco è il tono: accantonato il realismo a tutti i costi, qui si vira nel grottesco scivolando, a tratti, nella comicità slapstick. Sì, ma la violenza? C’è, c’è, non preoccupatevi. Anche qui abbiamo una buona dose di sangue e mutilazioni autoinflitte. Ma tutto è annacquato dal fatto che (forse per correre ai ripari dopo i polveroni scatenati dai capitoli 1 e 2) il realismo di cui erano pregni i primi due film, qui è del tutto assente.
Anzi, sui titoli di coda ci si concede persino la tristissima scelta di montare alcuni fuoriscena in cui gli attori scherzano tra loro sul set, in mezzo a sangue e frattaglie, quasi volessero rassicurare lo spettatore che è tutto finto, uno scherzo, una grande burla.
Peccato, perché la trama era anche interessante: un anonimo impiegato, annoiato dalla monotonia della sua vita, cerca di suicidarsi tagliandosi le vene.
Il problema è che non prova dolore, né tantomeno il suo corpo pare reagire come dovrebbe, ostinandosi a rimanere in vita anziché morire. L’uomo si torturerà sino allo sfinimento mutilandosi, trafiggendosi, cercando di uccidersi in ogni modo, ma senza mai riuscire a raggiungere il risultato sperato.
Ancora una volta gli effetti speciali sono ottimi, ma il tentativo di provare a inserire elementi nuovi nella saga (la comicità in primis) non fa altro che depotenziare il prodotto finale.
Genere: estremo, horror
Titolo originale: Ginî piggu 3: Senritsu! Shinanai otoko
Paese, Anno: Giappone, 1986
Regia: Masayuki Kusumi
Sceneggiatura: Satoru Ogura, Masayuki Kusumi
Interpreti: Shinsuke Araki, Masahiro Satô, Rie Shibata
Produzione: Sai Enterprise
Durata: 39'