Sono state molte le occasioni nelle quali il cinema si è cimentato con il tema della sordità: a partire da quello che è forse il film più conosciuto, Figli di un dio minore, passando per Sulle mie labbra di Jacques Audiard, fino ad quel piccolo gioiello uscito dall'Ucraina nel 2014, intitolato The Tribe. Una tematica sfidante, che costringe a rinunciare al sonoro, o quantomeno a risolverlo in qualcosa d'altro.
Ma c'è anche una innegabile suggestione estetica che, spinta al limite (come nel citato The Tribe), può anche riportare al cinema delle origini, che era muto. Se la cava a suo modo piuttosto bene anche Darius Marder con Sound of metal, film d'esordio che è già tra i candidati agli Oscar 2021.
Ruben suona la batteria in un duo metal assieme alla fidanzata Lou, con la quale vive dentro un camper. Il giovane comincia ad avvertire i primi disturbi legati agli acufeni, e ben presto perde quasi totalmente l'udito.
Lou prende allora contatto con un tizio di nome Joe, e convince il fidanzato a entrare nella sua comunità per non udenti, che prevede regole ben precise: prima fra tutte, il rifiuto della sordità come handicap, come di qualcosa a cui rimediare.
Tra scatti di ira, momenti di panico e di isolamento, “il gufo” sembra tornare a sorridere grazie ai bambini, suoi compagni nella classe di linguaggio dei segni. Ma la comunità, come gli ricorda Joe, offre una soluzione per la testa, non per le orecchie. Così, quando Ruben si imbatte sul web in un apparecchio acustico che promette miracoli, vende il camper e si indebita per acquistarlo: il ritorno alla normalità però, si mostrerà molto diverso da come se lo era immaginato.
Partendo da uno degli spunti più ovvi, quello musicale, la regia inizia tutta in falsa soggettiva: un montaggio sonoro intermittente e ansiogeno (Marder è un affermato montatore), che bracca il protagonista ma anche lo spettatore, che ha come l'impressione di infilare di continuo la testa sott'acqua. Dopo l'ingresso nella comunità, il film allenta la presa e si dedica al suo personaggio, ma riesce a metterlo a fuoco solo quando volge ormai alla conclusione.
Ruben ex tossicodipendente con tatuato “Please kill me”, Lou autolesionista per il suicidio della madre, sono i tipici beautiful losers del cinema americano, ma restano troppo a lungo solo abbozzati. Nell'ultima parte, che è la migliore del film, escono i caratteri dei due protagonisti: ma a quel punto saranno ormai distanti fra (e anche da) loro.
Darius Marder sembra provare la voce, prendendosi oltre le due ore per trovarla (come anche le altre pellicole sul tema che, evidentemente, richiede tempi più lunghi): ne esce un'opera ancora immatura, troppo sbilanciata nei tempi narrativi e non sempre puntuale con i suoi personaggi.
Gli va comunque riconosciuta la capacità di conciliare al meglio la pellicola indipendente con quella hollywoodiana, firmando un lavoro mai noioso né (troppo) retorico, con diversi momenti emotivamente toccanti e metafore riuscite: l'accettazione di sé attraverso il ritorno all'infanzia, la metamorfosi di Ruben dopo l'intervento, il primo e unico spiraglio di sole nell'ultima sequenza. Buona prova di Riz Ahmed e di tutto il cast (compreso il grande Mathieu Amalric). Forse solo una coincidenza, ma il doppiaggio risulta particolarmente insopportabile.
Genere: drammatico
Paese, Anno: USA, 2019
Regia: Darius Marder
Soggetto: Darius Marder, Derek Cianfrance
Sceneggiatura: Darius Marder, Abraham Marder
Fotografia: Daniël Bouquet
Montaggio: Mikkel E.G. Nielsen
Interpreti: Riz Ahmed, Olivia Cooke, Paul Raci, Mathieu Amalric, Lauren Ridloff, Jamie Ghazarian, Chris Perfetti, William Xifaras, Hillary Baack, Rena Maliszewski, Tom Kemp, Bill Thorpe, Chelsea Lee
Musiche: Nicolas Becker, Abraham Marder
Produzione: Caviar, Flat 7
Distribuzione: Prime Video
Durata: 120'