«Argento aveva avuto l'idea di una scena che comincia in un congresso di parapsicologi, dove c'è una medium che sente la presenza di un essere diabolico, di un essere cattivo». Con queste parole Bernardino Zapponi, co-sceneggiatore di Profondo Rosso, descrive la genesi del film-svolta nella carriera del regista romano: tutta la complessità di una visione così dirompente – ancora oggi – parte proprio dal rosso tendaggio del teatro che si apre sullo spettatore.
Come in un romanzo di Javier Marías, l'idea forte - da allargare a dismisura e scandagliare senza ritegno - è nelle prime pagine, nei primi minuti. Un'idea nuova che andava a compiere un innesto con il percorso precedente di Dario Argento, stravolgendone le regole e portando a definitivo compimento un percorso di distruzione dall'interno dei meccanismi della detection classica.
Profondo rosso è ancora un giallo puro nella sua volontà di indagine e depistaggio.
Nel porre al centro il dettaglio mancante, quello che l'occhio ha registrato e la mente non ha elaborato, ma la scatola che lo contiene ha la matrice dell'incubo, di quelle “solide ragnatele” che hanno colonizzato la villa abbandonata del Bambino Urlante.
Uno slittamento che avviene in corso d'opera, come se Argento avesse preso coscienza di poter spingere oltre la visione nello stesso istante in cui la registrava. Valga a titolo esemplificativo l'utilizzo della soggettiva dell'assassino ancora concreta e plausibile proprio nella sequenza a teatro, quando le parole di Helga Ulmann, la sensitiva, costringono il maniaco ad allontanarsi in fretta: i vicini di posto si alzano per farlo passare, guardano in macchina e ci guardano, mettono noi spettatori (come consuetudine argentiana) a contatto diretto con la follia assassina.
Eppure tutto questo non vale più giunti a metà del film, durante l'assassinio di Giordani, quando le simmetrie del pedinamento, i carrelli alle spalle della vittima che vorrebbero un attacco imminente sono completamente tradite da un assassino che colpisce “di fronte a noi”, nel controcampo, laddove fino a un momento prima riposava la certezza dell'immagine dell'indifeso solo contro la minaccia.
Profondo rosso celebra l'inutilità dello sguardo nel momento stesso in cui si prende il rischio assoluto di fornirgli le chiavi della soluzione, mostrando il vero volto dell'assassino all'alba della visione.
Un gesto consapevole, di chi sa che quel frammento di verità incontestabile si perderà facilmente all'interno del mare dell'inganno, della mutevolezza di quello che sembra essere, ma - come nel caso della sortita di Marc a casa di Massimo Ricci in cerca dell'amico Carlo -, non è, fin nei più piccoli dettagli e addirittura oltre i limiti dell'esperienza filmica.
Nel frammento in questione, Massimo Ricci apre la porta e spiazza Marc, perché è un travestito, qualcosa che il nome sul campanello non aveva previsto. Marc chiede scusa, quasi torna sui suoi passi, ma è solo un attimo, la nuova verità lo spinge a domandare: Carlo è proprio lì e Massimo è proprio la figura che gli ha aperto la porta. Ma l'inganno (che qui tradisce l'aspettativa) non si esaurisce appunto nella “visione”. L'attore che interpreta Massimo Ricci è in realtà un'attrice, Geraldine Hooper, una donna che finge di essere un uomo che si finge donna.
A un soffio dai cinquant'anni di vita Profondo rosso si conferma esperienza senza appigli.
Viaggio al centro dell'orrore senza rete, seduzione straniante al pari del suo personaggio più ambiguo, quella Gianna Brezzi (interpretata da una magistrale Daria Nicolodi, provinata su suggerimento di Zapponi e presto nuova donna della vita del regista) che si muove fluida tra le situazioni da sophisticated comedy e i gesti d'illusionismo (le mani che pescano la sigaretta e la portano alla bocca con un gioco di prestigio), che sfugge al consueto binomio aggressività patologica/subordinazione erotica in nome di un sano confronto a braccio di ferro.
Venendo agli spazi – esterni e interni – il discorso non cambia. Anticamera dell'Argento che verrà, piazza Cln non è diversa dalla Koenigsplatz di Monaco di Baviera in cui Flavio Bucci viene sbranato dal proprio cane-guida (Suspiria): carrelli circolari, travelling laterali, vertiginosi allargamenti di campo, sono i mezzi necessari a catturare l'infilmabile, il vuoto carico di echi e richiami (già stregoneschi), la pienezza di un'assenza che – come per il fotogramma mancante alla Blow up – torna ad Antonioni e alla sua relazione elettiva con lo spazio.
Piazza Cln accoglie il grido della medium come un richiamo lontanissimo, potremmo azzardare addirittura fuori sincrono rispetto alla linearità temporale del film se consideriamo che l'assassino ha già imperversato sulla vittima diversi minuti prima che Marc entri in scena camminando solitario.
«Dimenticare» si ripete la mente malvagia, ma i luoghi non solo conservano tutto, ma finiscono per rievocarlo, in una replicazione infinita. Il culmine, in questo senso, è il confronto campo-controcampo tra Marc e la villa mentre il martellante sincopato dei Goblin detta il ritmo. L'uomo e la costruzione entrano in un rapporto intimo e solitario, si danno man forte mentre il segreto custodito brama d'essere rivelato: la casa fornisce gli strumenti a patto di accettare la sua logica, il suo ruolo di custode delle già menzionate “solide ragnatele”.
L'incubo di Profondo rosso non ha perso un briciolo del suo potere ipnotico e continua ad aprire squarci profondi. Il suo percorso è un viaggio circolare che ha per diametro il filo invisibile che collega la medium all'assassino.
Tornando alla sequenza d'apertura possiamo dichiarare che le visioni di Helga hanno un doppio effetto: leggendo nella mente del killer si svela un segreto e si torna ad alimentare un impulso. Su questo doppio binario corre la storia del film e quella del suo autore, in un movimento che oscilla tra il giallo e la logica e il soprannaturale e l'illogico. Siamo sempre all'apice di un corridoio da attraversare (quello celeberrimo di casa Ulmann tra specchi e quadri - e specchi nei quadri e quadri negli specchi - fino alla finestra col corpo straziato, ma anche quello che separa la scrittrice Righetti dalla bambola impiccata, o quello che Marc affronta per raggiungere la parete da abbattere e trovare la stanza murata): compiuto il primo passo saremo già nel territorio della nenia infantile (“tutto ciò che è infantile fa paura” come dice Zapponi) che tutto avvolge, dentro e fuori la visione.
A perdere di senso è il concetto stesso di diegetico ed extradiegetico. Helga sente le note perché il killer sta facendo girare il nastro o può sentirle comunque, perché sta guardando nella sua testa? E noi? Ogni volta che ascoltiamo quelle note siamo certi da dove stanno arrivando? Dal nastro, dal disco, da una rimembranza, da un pensiero ossessivo?
In questa fusione tra vero e verosimile, tra violento atto fisico e morboso scatto mentale, persiste il fascino irriducibile di Profondo rosso, qualcosa che persiste, che resta incollato alla memoria, come Marc che già dopo i titoli di coda continua a specchiarsi nella chiazza di sangue senza decidersi a compiere un passo oltre.
Genere: giallo, horror, thriller
Titolo originale: Profondo rosso
Paese, anno: Italia, 1975
Regia: Dario Argento
Sceneggiatura: Bernardino Zapponi, Dario Argento
Fotografia: Luigi Kuveiller
Montaggio: Franco Fraticelli
Interpreti: Aldo Bonamano, Clara Calamai, Daria Nicolodi, David Hemmings, Eros Pagni, Fulvio Mingozzi, Furio Meniconi, Gabriele Lavia, Giuliana Calandra, Glauco Mauri, Liana Del Balzo, Macha Méril, Nicoletta Elmi, Piero Mazzinghi, Salvatore Baccaro, Tom Felleghy
Colonna sonora: Giorgio Gaslini, Goblin
Produzione: Rizzoli Film, Seda Spettacoli
Distribuzione: Cat People
Durata: 127'
Data di uscita: 10/07/2023