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Fahrenheit 9/11

07/11/2008 11:00

Leonardo Piva

Recensione Film,

Fahrenheit 9/11

Arriva un momento in cui anche il cinema deve assumersi le proprie responsabilità e smuovere le coscienze...

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Arriva un momento in cui anche il cinema deve assumersi le proprie responsabilità e smuovere le coscienze. C’è riuscita la musica nel ’68, il cinema non può sottrarsi. E così, dopo aver esplorato il mondo delle lobby delle armi in Bowling for Colombine, l’irrequieto Michael Moore alza il tiro e prova a smascherare tutte le falle del governo Bush. Il regista del Michigan prima pubblica il libro Stupido uomo bianco, poi non appagato inizia la realizzazione (non senza prevedibili difficoltà produttive) del documentario: genere che deve molto a Moore, riportato alle luci della ribalta e in circuiti mainstream.


Davanti agli occhi abbiamo il risultato di un lavoro indotto dalla passione verso gli Stati Uniti, e verso quegli ideali subdolamente traditi. Il film è sostanzialmente spaccato in due, e la parte che funziona di più è nettamente la prima. Concentrata più sugli affari interni, la prima ora scorre che è un piacere tra punti di vista tanto pericolosi quanto ironici in cui Moore non si trattiene, e riesce a “vendere” il suo prodotto con grande leggerezza e disinvoltura. Tra momenti d’antologica onestà intellettuale (su tutti quando tenta di convincere i parlamentari a far partecipare i propri figli alla guerra in Iraq, ricevendo in cambio ovviamente sguardi poco consenzienti) e immagini di repertorio cinematografico, il film arriva ad un punto di svolta quando le immagini e la narrazione subiscono un cambio di rotta. Filmati crudi e drammatici della guerra in Iraq prendono il posto delle buffe espressioni di Bush: il tono cupo impone anche alla satira di Moore di rallentare. Prendono voce i racconti di militari e reduci, ma soprattutto la testimonianza e le confessioni di una madre che ha visto il proprio figlio perdere la vita in suolo iracheno. Eccessivamente prevedibile anche se ovviamente veritiera e imprescindibile: in questa seconda parte si abusa di retorica, Moore si defila ed ecco che il meccanismo sembra rompersi. Ma lo snobismo di fronte a certi temi – certo abusati e inflazionati – lo lasciamo da parte; non ha senso lavorare troppo di cervello davanti a tutta questa emotività e al coraggio di raccontare il lato oscuro di un paese. Chapeau.


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