A tre anni dall’uscita dell’indimenticabile I predatori dell’arca perduta l’affiatata coppia Lucas/Spielberg torna a plasmare le avventure del famoso archeologo. Un ritorno annunciato fin dalle discussioni in merito al film capostipite, e all’idea originaria di girare una trilogia. Spielberg nel 1984 è reduce dagli ottimi incassi del primo capitolo della saga, nonché dal grande successo del suo personalissimo E.T. L’Extraterrestre e, come d’accordo con George Lucas, decide di dirigere il secondo capitolo dedicato al più celebre archeologo della storia del cinema. Si tratta in realtà di un prequel, in quanto gli eventi narrati precedono di un anno quanto si è visto nel primo film. I polverosi e sgualciti panni di Indiana Jones non può che vestirli il ben collaudato Harrison Ford. Il film si apre con una sequenza mozzafiato ambientata in un locale della Shanghai del 1935, dove assistiamo alle rocambolesche peripezie che portano il protagonista ad una precipitosa fuga in aeroplano, accompagnato dalla cantante Willie – interpretata da una giovane Kate Capshaw, futura moglie dello stesso Spielberg – e dal piccolo Shorty – il dodicenne Jonathan Ke Quan all’esordio sul grande schermo. I tre si getteranno in volo dall’aereo e con un atterraggio di fortuna, si metteranno alla ricerca di una pietra sacra rubata in uno sperduto villaggio dell’India. Il primo capitolo della saga aveva avuto l’indubbio merito di racchiudere in poco meno di due ore una miscela perfetta di avventura, azione ed ironia, dando origine a un personaggio entrato di diritto nell’immaginario comune di grandi e piccini, e che ha fatto sognare i ragazzi cresciuti negli anni ’80. Questo secondo episodio riprende la stessa ricetta, recuperando addirittura delle scene pensate per il primo film e poi non utilizzate, ma lo fa puntando ancor più sull’ironia e su una certa inclinazione per il cupo ed il truculento. Nel primo caso, assistiamo a dialoghi davvero spassosi e divertenti, merito anche dell’ottima recitazione dei protagonisti, con un apice indimenticabile nell’irresistibile scambio di battute fra Indy e Willie a proposito di ars seductoria. Per quanto invece riguarda la seconda caratteristica, è indubbio che questo capitolo sia decisamente più cupo e spaventoso rispetto all’originale, includendo temi non proprio “per tutti”, come sacrifici umani, riti voodoo e qualche scena di forte impatto. Il cocktail però funziona e Spielberg riesce a dirigere un meccanismo perfetto, equamente bilanciato nel gestire tempi comici e sequenze d’azione, supportato da un montaggio serrato e da una colonna sonora indimenticabile, affidata nuovamente a John Williams. Ambientazioni suggestive, colpi di scena a profusione e ottime scene d’azione, raggiungono il loro culmine nella famosissima sequenza della corsa nelle miniere e nel finale al cardiopalma, ambientato su un vecchio ponte tibetano ed ormai entrato a pieno titolo nelle scene cult dei film d’avventura. Pertanto, si parla di una pellicola che, pur essendo necessariamente meno originale e rivoluzionaria rispetto al primo film, è sempre in grado di garantire due ore di divertimento. La dimostrazione che un grande regista sa essere tale sapendo dirigere sia produzioni impegnate come Il colore viola o Schindler’s List, sia nel caso di altre decisamente più virate verso il puro intrattenimento e la semplice voglia d’avventura.