Martellante, sinistra e vorticosa parabola della follia. Rutilante discesa della mente umana verso un formicolante delirio che insinua il suo tarlo marcescente tra i monotoni battiti cerebrali. Stanley Kubrick, dopo aver navigato gli infiniti sentieri senza spazio né tempo della deriva cosmica esistenziale in 2001: Odissea nello spazio e aver scavato nei meandri della grottesca violenza fisica e psicologica che permea l’intero sistema sociale in Arancia Meccanica, approda al racconto di Stephen King e alla sua rielaborazione del tema della haunted house, dirigendo una pellicola che si discosta tanto dalla trama del romanzo, quanto dalle regole del genere horror, destrutturando e aprendo, in maniera capillare e ossessiva, disturbanti fessure visive, temporali e sonore dell’arco narrativo. Jack Torrance (Jack Nicholson), insegnante disoccupato e scrittore frustrato, accetta di trasferirsi con la moglie (Shelley Duvall) e il figlio Danny (Danny Lloyd) all’Overlook Hotel durante i mesi di chiusura invernale, in qualità di custode della struttura. Nonostante la prospettiva del lungo periodo di isolamento e i tragici avvenimenti accaduti nell’albergo, Jack considera il posto l’occasione per trovare finalmente la concentrazione e la tranquillità necessaria alla stesura del suo nuovo romanzo. Ma le inquietanti presenze e le agghiaccianti visioni che si rivelano al piccolo Danny, dotato di particolari poteri paranormali, saranno soltanto il preludio alla maestosa dissennatezza che travolgerà Jack, risucchiandolo in un turbine di insano e delirante pathos omicida. Gli estenuanti e claustrofobici movimenti di macchina, così come i lenti zoom out sui primi piani dei protagonisti, i lunghi corridoi e le labirintiche fughe prospettiche degli interni, unito all’uso persecutorio della steadycam di Garrett Brown, fanno di Shining un asfissiante nodo alla gola che deve l’efficacia della sua stretta all’atmosfera di angosciante ambiguità , di inquietante sfuggevolezza interpretativa, oppressa e soffocata dalla perfetta simmetria degli ambienti e da specchi che rimandano raggelanti riflessi di morte. L’incessante sostrato sonoro rigurgita vermigli strati di tensione emotiva alimentando, per poi spezzarla nei suoi sordi apici, l’ipnosi fruitiva. La brulicante angoscia del brano Kanon di Krzysztof Penderecki, o il crescente vortice psicopatico sostenuto dalla Musica per archi, percussioni e celesta di Bela Bartok e Herbert von Karajan, sono l’ossessionante e insano respiro che commenta i più alti momenti all’interno dei ciechi vicoli della follia. Le scorribande del piccolo Danny sul triciclo, o l’avanzare di Jack sull’incolumità della moglie che brandisce con lamentoso piagnisteo una mazza da baseball, o ancora l’estremo inseguimento finale nei gelidi sentieri innevati, diventano un annebbiato brancolare, nel tentativo di afferrare un ultimo recondito barlume di sanità mentale: tragicamente e ciclicamente – nel perverso gioco kubrickiano di eterni ritorni – negato da un luogo pregno di memorie infernali. Così come l’uomo, nel sempiterno circolo dell’esistenza, diventa insignificante e perduta monade in un labirinto inestricabile.