Tenacità e temprabilità sono caratteristiche distinte di alcuni materiali utilizzati per creare, costruire, sopportare il peso gravitazionale della civiltà industriale. La prima indica la capacità di assorbire energia veicolandola nella sua deformazione. Mentre la seconda è l’attitudine a modificare la propria durezza attraverso un trattamento di tempra, ovvero un riscaldamento a laviche temperature seguito da un brusco raffreddamento. L’acciaio col quale è stato forgiato il Superman di Zack Snyder possiede – come provenienza e punto di arrivo – entrambe le qualità : preceduto dagli spietati esercizi del tempo che hanno sottoposto a dure prove la tenacità del personaggio, L’Uomo d’Acciaio prende vita dal fuoco della distruzione, con il riavvio delle origini del superstite kryptoniano – dalla sua nascita sullo sfondo dell’implosione del pianeta natale – ai primi impulsi eroici, giungendo alla cristallina coscienza di sé nelle lande innevate e gelide terrestri.
Come il primo Superman del ventunesimo secolo era stato un ritorno, ancor più che di un personaggio, ad un approccio adattivo cronologicamente distante, risultato anacronistico dell’occhio delicato e omaggiante di Singer, questo sesto adattamento del supereroe dei fumetti DC è una mera rinascita. Snyder non ha nulla dell’epicità narrativa e sentimentale di Donner, né il morbido tatto introspettivo di Superman Returns: piuttosto la macrocosmica sensibilità dell’avvenenza patriottica e guerrafondaia, la prontezza nel cogliere il clangore del ferro e della devastazione testosteronica, il prodromico martellamento su lame incandescenti che precedono l’innalzamento delle spade, il battito delle vene che ingrossano prima dell’urlo in battaglia. In questo, il riavvio delle gesta del supereroe venerato dal pubblico del cinema e dei fumetti – che percorre il periodo ancora inesplorato della vita di Kal-El sulla Terra, i suoi primi, adolescenziali istinti salvifici rivolti al prossimo, la maturazione della consapevolezza di eroe ancor prima del nome terrestre di Superman e della seconda identità di giornalista – è quanto di più lontano e nuovo si sia finora visto dalla tradizione filmica ad esso legata.
Nonostante siano i padri a dominare ancora una volta – da Brando ai recenti Routh e Madsen, fino a Crowe e Costner – la lettura del testo, così come il patriarcale militarismo di guerra e la fratellanza razziale che si stringe in se stessa annientandosi, nell’iride cangiante e ambigua dello sguardo materno risiede l’afflato più autentico della pellicola. L’abbrivio narrativo, il parto di Lara mentre dà alla luce il pargolo di casa El, è solo il fugace attimo di gioia che precede l’allontanamento del piccolo da parte degli stessi genitori prima della fine catastrofica del pianeta. Gli occhi di Ayelet Zurer mentre assistono allo sfacelo della vita appena dopo averne partorito una, ovvero la creazione prima della distruzione: questo è L’Uomo d’Acciaio. Costruisce con i migliori propositi di prosperità futuribile ed affettiva, e spedisce altrove il frutto stesso di tale parto poco prima di riuscire a godere del coinvolgimento emotivo di tale miracolo. Così la sceneggiatura di Goyer crea i presupposti di approfondimento psicologico ed emotivo, relegandoli però al di fuori di una trama di lotte e guerriglie sovrumane ai limiti dell’intellegibilità , privando la pellicola degli attimi necessari a riprendere fiato, congelati, piuttosto, su un’immaginaria soglia fruitiva pur avendone tutti gli accessi liberi e pronti al varco. E dove la scrittura drammaturgica fallisce, il sostrato musicale trionfa, percorrendo, attraverso la colonna sonora di Zimmer, la cadenza e il fragore delle armi, il rullo dei tamburi in marcia, il solingo sospiro interiore del guerriero, e acuendo, nel lirismo di alcuni passaggi melodici, la struggente ostinazione nel mantenere a distanza il sostrato emozionale della storia. Come Martha Kent, l’altra madre della pellicola, raccoglie le fotografie di famiglia tra le macerie della propria casa pericolante, allo stesso modo le immagini sono ciò che nella memoria sopravvive al rutilante disaster-movie di Snyder, capolavoro di parossismo visivo videoludico e ipercinetico, espressione di una cinematografia contemporanea controversa e di tempi governati da contenuti inconsistenti, ma magistralmente confezionati.