Con il suo terzo lungometraggio il regista colombiano Ciro Guerra ha portato l’arcaico mistero dell’Amazzonia a Cannes e agli Oscar. El abrazo de la serpiente, vincitore del premio Art Cinéma alla 68esima edizione del Festival di Cannes e candidato agli Oscar 2016 nella categoria miglior film straniero, conduce lo spettatore nei recessi dell’Amazzonia, in un viaggio salvifico lungo il corso del fiume ispirato ai diari degli esploratori Theodor Koch Grunberg (1872-1924) e Richard Evans Schultes (1915-2011). Lo sciamano Karamakate (Nilbio Torres e Antonio Bolìvar Savador), ultimo superstite del popolo Cohiuano, accompagna lo scienziato americano Evan (Brionne Davis) nella giungla, quarant’anni dopo aver guidato nel medesimo percorso l’etnografo tedesco Theo (Jan Bijvoet). Due viaggi, due tempi e un’unica meta: la yakruna, una pianta sacra agli indios dai potenti poteri allucinogeni, capace di guarire dalle malattie del corpo e dello spirito e di aumentare la purezza del caucciù, sul quale cresce. È la natura a dettare il ritmo e le modalità del viaggio: per questo motivo prima di mangiare carne e pesce è necessario chiedere il permesso al Padrone degli Animali, per questo motivo è l’acqua del fiume che impone movimento al remo della canoa e non viceversa. L’uomo bianco dovrà spogliarsi dei propri oggetti e dei propri riferimenti per avanzare nel cuore di tenebra della foresta amazzonica, in una progressiva discesa nel mistero più cupo. Solo così si potrà confrontare con gli indios ridotti in schiavitù dai signori del caucciù o con l’esaltazione mistica di un bianco proclamatosi Messia che invita i suoi seguaci indigeni a cibarsi del suo corpo per entrare in comunione con lui. Con la splendida fotografia di David Gallego, Ciro Guerra spoglia l’Amazzonia dei suoi colori, restituendone un ritratto in bianco e nero che con la sua scarna essenzialità colpisce più di qualsiasi paesaggio da cartolina. El abrazo de la serpiente racconta la saggezza atavica dei popoli amazzonici affondando le sue radici in Aguirre, furore di Dio (Werner Herzog, 1972) e prendendo le distanze da qualsiasi stereotipo. Più che mettere al centro lo scontro di civiltà, il film racconta il difficile incontro tra uomini dalla storia e dalla cultura differenti, nel percorso verso l’allucinata conoscenza veicolata dal sogno indotto dall’ayakruna. È in questo modo che El abrazo de la serpiente sceglie di raccontare prima di tutto l’uomo, affrontando questo tema nella prospettiva del doppelgänger. Nel film, infatti, lo stesso Karamakate sceglie di accompagnare i due esploratori per curare innanzitutto se stesso e uscire dallo stato di chullachaqui, ossia di uomo vuoto, incapace di ricordare e di ascoltare la voce delle rocce, degli alberi e degli animali. Il percorso verso la yakruna è prima di tutto un percorso verso l’unità, verso la ricomposizione di tutte le fratture che lacerano l’individuo: «Non sei un solo uomo. Sei due uomini» dice lo sciamano a Evan, promettendogli di trasformarlo in un uomo unico proprio attraverso l’esperienza con la pianta allucinogena, capace con il suo potere di condurre chi la assume innanzi all’anaconda-fiume, permettendogli di ritrovare se stesso nell’abbraccio primordiale del serpente e della natura. El abrazo de la serpiente è un film che con la sua narrazione scarna ed essenziale rifugge da qualunque rappresentazione stereotipata, conducendo lo spettatore nel folto della foresta e del mistero e, attraverso di essi, alla radice stessa dell’uomo, in un viaggio cinematografico che trova il suo compimento in un finale allucinato e lisergico che non può non richiamare alla memoria i celebri ultimi istanti di 2001 Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968). È questo il poetico e potente omaggio di Ciro Guerra «alla memoria di quei popoli di cui non conosceremo mai il canto» e a una natura incontaminata che è sempre più necessario preservare.